Amore, dolore, musica: il viaggio di Dylan in BLOOD ON THE TRACKS
BLOOD ON THE TRACKS, capolavoro di Bob Dylan, è un album nato dal dolore personale: tra arrangiamenti rivoluzionati e racconti intensi di amore e tormento
BLOOD ON THE TRACKS è un viaggio nell’intimità artistica di Bob Dylan. Lo ripercorriamo dalla genesi legata al dolore personale, alla gestazione tormentata delle registrazioni, fino alla straordinaria ricchezza stilistica che mescola folk, blues e rock.
BLOOD ON THE TRACKS è oggi considerato uno dei migliori album di Bob Dylan, al pari dei suoi lavori più celebrati degli anni Sessanta. Al momento della sua uscita, però, nel 1975, non fu accolto con particolare entusiasmo dalla critica, che ne sottovalutò il valore artistico. Il riscontro commerciale, invece, fu immediatamente positivo: il disco raggiunse la prima posizione negli Stati Uniti e la quarta nel Regno Unito. Nel febbraio del 1975 ottenne il disco d’oro, seguito da due dischi di platino nel 1989 e nel 1994.

La musica che guarisce il dolore
La fine del matrimonio con Sara Lownds, la prima moglie di Bob Dylan, è un momento cruciale nella vita del cantautore di Duluth. L’unione è ormai a pezzi, ma anziché soccombere al dolore, alla frustrazione e ai rimpianti, Dylan riesce a reagire e, per farlo, decide di tornare in pista e rimettersi al centro della scena musicale. Così, nel 1974, Dylan abbandona l’isolamento idilliaco di Woodstock per tuffarsi nella tumultuosa New York degli anni ’70, una città in fermento dove, poco dopo, sarebbero nati i primi vagiti del punk. Secondo la leggenda, è proprio per lenire i tormenti del cuore che Dylan si rifugia nella sua medicina più potente: le canzoni. Così nasce BLOOD ON THE TRACKS, un album che molti fan - Francesco De Gregori in testa - considerano il suo capolavoro assoluto. È un disco che segna un nuovo capitolo nella carriera di Dylan: un inno all’amore e ai suoi fallimenti, un componimento poetico che dondola tra dolcezza e dolore, dove l’iconografia folk e acustica si intreccia perfettamente con un impianto elettrico, blues e rock. Dylan, tuttavia, ha sempre smentito che BLOOD ON THE TRACKS sia un disco ispirato dalla sua separazione. Nella sua autobiografia del 2004, CHRONICLES - VOL. 1, affermò che le canzoni non erano legate alla sua vita privata, ma nate dalla lettura dei racconti di Anton Čechov. Eppure, nonostante le sue dichiarazioni, è difficile non vedere nel disco il riflesso di quella dolorosa separazione. Per portare a termine quelle canzoni, Dylan non trovò immediatamente la quadra stilistica e sonora degli arrangiamenti. Servirono tempo e dedizione: quelle canzoni vennero cesellate come fossero gioielli, ricorrendo a cambi di direzione, musicisti e arrangiamenti anche drastici. Ma il risultato è una musica che riesce a raccontare il dolore, la guarigione e il complesso viaggio dell’amore galleggiando fuori dal tempo, da qualunque rigida catalogazione stilistica. Una sincerità e bellezza artistica che solo Bob Dylan poteva raggiungere.
Un clamoroso ripensamento
La gestazione di BLOOD ON THE TRACKS fu tutt’altro che lineare. Le prime sessioni, con il chitarrista Mike Bloomfield e un’impostazione elettrica, produssero un album che, in un clamoroso ripensamento di Bob Dylan, venne accantonato a pochi giorni dalla pubblicazione. Insoddisfatto del risultato, Dylan decise di rimettere tutto in discussione. Con l’aiuto del fratello e produttore David Zimmerman, convocò a Minneapolis un gruppo di musicisti locali e registrò nuovamente cinque brani, rivoluzionandone gli arrangiamenti. L’obiettivo era creare un sound più intimo e raffinato, con arrangiamenti quasi esclusivamente acustici, arricchiti da leggere pennellate di basso, organo e steel guitar. Così, dopo una prima fase travagliata di registrazioni a New York, l’album trovò finalmente la sua forma definitiva grazie a un sorprendente lavoro di restauro a Minneapolis. Il motivo dietro questa decisione resta avvolto nel mistero. Secondo alcune teorie, Dylan considerava gli arrangiamenti iniziali troppo scarni e monotoni, con canzoni che suonavano eccessivamente simili tra loro. Un’altra ipotesi racconta che, durante un ascolto preliminare con il fratello, quest’ultimo abbia espresso perplessità sugli arrangiamenti, spingendo Dylan a intervenire drasticamente sui brani. Il risultato di questo cambio di rotta fu sorprendente: pezzi come "Idiot Wind" testimoniano la trasformazione radicale subita dalle canzoni. Le nuove versioni, molto diverse da quelle originali reperibili nei bootleg, hanno contribuito a fare di BLOOD ON THE TRACKS uno degli album più acclamati della carriera di Dylan.
Musica bella, tenue ed elegante
A livello stilistico, c’è un po’ di tutto tra i solchi di BLOOD ON THE TRACKS. Senza mai allontanarsi dall’impianto prevalentemente folk e acustico, definito nella seconda fase delle registrazioni a Minneapolis, l’album si muove tra pulsazioni che spaziano dal blues al country. Questo è evidente in brani come "Tangled Up in Blue" o "Lily, Rosemary and the Jack of Hearts", che rappresentano l’anima più rock del disco, arricchiti dall’uso di basso, batteria e, nel caso di "Meet Me in the Morning", anche da una deliziosa chitarra slide. Brillano inoltre le composizioni in cui voce, armonica e chitarra acustica sono protagoniste assolute. Esecuzioni straordinarie che, in questo disco, vengono valorizzate da una scelta di arrangiamento speciale: l’aggiunta del basso elettrico, che pulsa tra ritmiche e accordi di chitarra acustica, donando groove, calore e armonia come in "Buckets of Rain" o "Simple Twist Of Fate" che sono meraviglie musicali. A livello di scrittura, i brani di BLOOD ON THE TRACKS si accendono nel contrasto tra la profondità e maturità delle storie raccontate e la semplicità - bella, tenue ed elegante - degli accordi che le accompagnano. Una volontà di comunicare in maniera diretta e accessibile anche i tormenti più intricati e sofferti dell’animo. Forse, un riflesso dell’inclinazione artistica in fermento di una New York in cui stavano emergendo i primi vagiti della rivoluzione punk.