Bob Dylan, una celebrazione della musica americana all'Arena
Ieri sera all'Arena di Verona l'ultimo live del tour italiano
Il giorno del mio diciassettesimo compleanno - correva l'anno 2001 - festeggiai assistendo per la prima volta a un live di Bob Dylan, nella natìa Napoli, una di quelle cose che ti restano dentro nonostante la giovane età e la conoscenza abbastanza sommaria che fa spazio alla curiosità. Diciassette anni dopo - complice un' Arena di Verona che tra le proprie pietre conserva la storia della musica - decido di provare a vedere nuovamente l'effetto che fa, ben consapevole che su Dylan dal vivo esiste un' agiografia mica da ridere e che l'umore del Nostro rischia di farla da padrone. Fantastico o insopportabile? Noncurante del pubblico o empatico?
Sulla setlist poco mistero nel 2018, alla sesta data italiana basta andare online per sapere che sono davvero tanti i brani più famosi rimasti a casa, ma non è certo un buon motivo per non giocare d'azzardo e capire quanto il cantautore premio Nobel abbia deciso di concedersi, se oltre il tassativo divieto di squarciare l'oscurità di spalti e platea con qualsivoglia luce blu da smartphone, ci sia la volontà di non indispettire. I riflettori sul palco sono da dietro le quinte di set hollywoodiano di una volta, una scena intima ma catalizzante che vede Dylan protagonista per quasi tutto il tempo dietro la tastiera del pianoforte, ordinato, presente, 'in buona' direbbe qualcuno. L'attacco rimanda proprio al 2001 con 'Things Have Changed', brano contenuto nella colonna sonora di "Wonder Boys" e premiato quell'anno con il Grammy per poi postarsi su una tripletta monstre con 'Don't Think Twice, It's Allright', 'Highway 61 Revisited' e 'Simple Twist Of Fate'. Il settantacinquenne cantautore e la sua band - sempre equilibrata e capace di restare un passo indietro all' occorrenza e tirare fuori l'adrenalina con precisione quando serve - fondono la tradizione blues e folk al jazz e il rock'n'roll, tutta la cultura della musica americana in un filo intrecciato a sorreggere le liriche, a raccontare storie, a pesare le uniche parole che Dylan proferirà, ben saldo nella gabbia dei versi. Ci sono tre cover, inclusi Sinatra e Yves Montand, e molti dei brani sono del tardissimo periodo della sua produzione ma perle come 'Desolation Row' e 'Tangled Up In Blue' valgono il prezzo del biglietto e qualsiasi timore iniziale è fugato. Dylan è in palla, forse anche consapevole del potere del luogo in cui si trova, non si sbilancia (come potrebbe!) ma non si risparmia e racchiude le oltre 10.000 persone in un cerchio magico, da orizzonti che si perdono alla vista, polvere e terra.
L'encore è affidato a una 'Blowin'In the Wind' a tenuta blues, irriconoscibile per gli amanti della versione su album, e 'Ballad Of A Thin Man', un manifesto di indipendenza, una ennesima messa in evidenza che uno dei più grandi cantautori di tutti i tempi non ha bisogno di ingraziare ma solo della sua musica e di un ultimo inchino, di un punto esclamativo sull'incantesimo con il quale Dylan, quando è in serate come queste, riesce a catturare il mondo intero.