Da Malmsteen a Richard Benson: ascesa, eccessi e derive dello shred neoclassico
Yngwie Malmsteen ha rivoluzionato la chitarra: una guida alla sua musica, tra eredi, cloni, fino al suo riflesso più surreale in Italia, Richard Benson.
Nato il 30 giugno 1963, Yngwie Malmsteen ha riscritto le regole del rock fondendo metal e musica classica. Ripercorriamo le origini, lo stile del chitarrista svedese e l’impatto della sua rivoluzione neoclassica, che ha ispirato generazioni di chitarristi come Jason Becker, Marty Friedman, Tony MacAlpine, Vinnie Moore, Paul Gilbert e molti altri.
Quindi, una guida semiseria ai suoi cloni più estremi, da Chris Impellitteri a Michael Angelo Batio, fino a una deriva tutta italiana che profuma di culto e parodia: l’effetto collaterale più teatrale di Yngwie Malmsteen, Richard Benson.

Ispirazione Classica
Yngwie Malmsteen nasce a Stoccolma il 30 giugno 1963. Cresce in una famiglia dove la musica è ovunque, ma mentre in casa si ascolta jazz, lui inizia a suonare la chitarra a sette anni con una precoce insofferenza verso il blues e le scale pentatoniche: “Clapton, B.B. King, Deep Purple, lo stesso Hendrix: grande feeling ed energia che mi hanno ispirato ma… tutto troppo facile”, dirà anni dopo. Il punto di svolta arriva con i Genesis di SELLING ENGLAND BY THE POUND (1973) e con l’ascolto ossessivo della musica classica: Bach, Mozart, Vivaldi. Ma soprattutto Paganini, scoperto per caso grazie a una trasmissione tv registrata con un vecchio mangianastri. Da lì in poi, tutto cambia: “Il Capriccio 5 e il 16 mi hanno ossessionato per anni. Non li ho mai suonati nota per nota, ma ho preso quel suono, quell’approccio agli arpeggi…”. Malmsteen non è solo un virtuoso: è un visionario. Alla fine degli anni ’70, mentre esplode il punk, resta impermeabile ai trend: “Il punk piace ai non musicisti o ai musicisti scarsi. I Sex Pistols avevano un senso, ma il resto faceva schifo.” Con il grunge non è più tenero, anche se riconosce un merito: “Almeno ha spazzato via quella merda glam. I Nirvana avevano una visione, la scena che li ha seguiti no.”
Il grande successo
Nel 1984, dopo esperienze in America con Alcatrazz e Steeler, pubblica il suo primo album solista, RISING FORCE. È una scossa tellurica nel mondo del rock: metal velocissimo, eeguito in modo magistrale che si nutre di Bach e Paganini, suonato con una Stratocaster con il manico scavato come quello di un liuto, e un senso melodico che resta intatto anche a velocità folli. Malmsteen non inventa solo uno stile, ma un genere intero. La strumentale “Far Beyond the Sun” diventa un paradigma: è metal, è classica, è shred. È qualcosa che prima non esisteva. Con il secondo album, MARCHING OUT (1985), Malmsteen rafforza l’identità del suo universo musicale. Brani come “I’ll See the Light Tonight”, “I’m a Viking” e “Anguish and Fear” sono picchi di speed e power metal ancora oggi celebrati: melodie epiche, riff affilati, una voce potente (quella di Jeff Scott Soto), una produzione di alto livello. Non è solo tecnica: è un sound credibile, coerente con la passione metal di quegli anni, capace di affascinare anche chi non capisce nulla di sweep picking. Il successo continua con TRILOGY (1986) e ODYSSEY (1988), che consolida la sua popolarità anche fuori dalla cerchia dei guitar nerd. Per chi vuole godersi Malmsteen al suo apice, il live video TRIAL BY FIRE: LIVE IN LENINGRAD (1989) è una chicca imperdibile: un concerto memorabile in Russia, con la formazione stellare dei fratelli Johansson (Jens alle tastiere, Anders alla batteria) e Joe Lynn Turner alla voce, ex Rainbow. È l’epoca d’oro di Malmsteen: chitarrista celebrato, artista credibile, frontman carismatico, superstar internazionale. Malmsteen ha influenzato intere generazioni. E oggi guarda con ironia il fenomeno dei suoi cloni: “Quando in Svezia da ragazzino mi prendevano in giro per il mio stile, nessuno credeva che ce l’avrei fatta. Ora vedo centinaia di chitarristi che mi copiano. Mi incanta.” A distanza di quarant’anni, Yngwie Malmsteen resta una figura divisiva ma imprescindibile. Ha spinto la chitarra rock verso territori inesplorati, fuso generi apparentemente inconciliabili, e aperto le porte a una corrente musicale che ancora oggi, tra adorazione e parodia, porta il suo nome: lo shred neoclassico.
Dopo Malmsteen: tra eredi e cloni da palcoscenico
La rivoluzione chitarristica innescata da Malmsteen a metà degli anni ’80 ha acceso un entusiasmo senza precedenti per la velocità, la pulizia esecutiva, l'esasperazione tecnica. Un’onda lunga che ha generato una generazione di virtuosi straordinari, in grado di coniugare talento tecnico e visione artistica. Molti di loro, pur partiti proprio sull’onda dello shred neoclassico, hanno poi costruito carriere mature e poliedriche, diventando veri e propri riferimenti musicali: Jason Becker, la cui storia umana e musicale resta tra le più toccanti del rock; Marty Friedman, capace di passare dai Cacophony ai Megadeth con grande personalità; Tony MacAlpine e Vinnie Moore, pionieri colti e sperimentali; Greg Howe, Richie Kotzen e Paul Gilbert, che hanno saputo andare oltre l’etichetta del guitar hero per esplorare funk, fusion, hard rock e oltre, spingendosi fino ai piani alti delle classifiche. Ma accanto a questi, esiste anche un’altra categoria: i devoti irriducibili. Chitarristi dalle capacità tecniche spaventose, ma che non sono mai riusciti a scrollarsi di dosso lo spettro di Malmsteen. Anzi, sembrano averne sposato ogni cliché — dal suono agli abiti, fino alla gestualità da crociato barocco — rimanendo prigionieri di uno stile che rischia spesso la caricatura. Figure che in ambito didattico e dimostrativo sono autentiche istituzioni, ma che artisticamente non hanno mai trovato una voce propria. Proponiamo una guida alla scoperta di due di queste figure-simbolo del culto neoclassico più estremo, più un “extra bonus” tutto italiano: un personaggio che, più che strettamente musicale, è diventato col tempo una testimonianza vivente dell’influenza di Malmsteen anche sul costume, il linguaggio e la mitologia del rock nostrano.
Chris Impellitteri: la mitragliatrice del neoclassico
Se Malmsteen è Paganini, Chris Impellitteri è una mitragliatrice montata su un palco power metal. Già il suo omonimo EP d’esordio del 1987 è un manifesto di velocità esagerata: scale classicheggianti tritate a una tale velocità da sembrare uscite da un videogioco. Il tutto accompagnato da una voce acutissima e arrangiamenti eroici, perfetti per una battaglia tra draghi e cavalieri in spandex.
DA VEDERE: “Speed Soloing”, il suo evocativo metodo didattico in VHS anni ’80. Mascella serrata, sguardo ispirato di languida fierezza, tonnellate di lacca e velocità iperboliche a scapito quasi dell’intelligibilità.
Michael Angelo Batio: l'uomo da quattro manici
Michael Angelo Batio è forse l’emblema definitivo del fenomeno da baraccone shred. Ambidestro, suona con due chitarre contemporaneamente (una per mano). Oppure, la sua Double-Guitar a forma di X con quattro manici, è leggendaria e ridicola allo stesso tempo. Idolatrato come insegnante di chitarra (anche Mark Tremonti degli Alterbridge è stato un suo adepto) ha sempre sacrificato il suo lato artistico ossessionato dall'esigenza di ostentare la sua tecnica sovrumana. Negli ultimi anni si è riscattato entrando come chitarrista nei Manowar, trovando finalmente una connotazione più musicale.
DA VEDERE: in bilico tra il sublime e l’orrendo, “Fright Train” diventerà un classico dell’air metal perché cattura in una parodia più o meno inconsapevole tutti i cliché del genere. I Nitro (fino ai Manowar, l’unico trascorso degno di nota di Batio in una band) sono vestiti come i cugini di campagna dei Guns N’ Roses di “Welcome to the Jungle”, e Michael Angelo suona un assolo delirante sulla sua chitarra a quattro manici.
Richard Benson: la tragedia e la farsa, ma prima la chitarra
Figura controversa e istrionica, Richard Benson è stato molto più della caricatura trash degli ultimi anni. Negli anni ’80 e ’90 è stato un protagonista vivace della scena musicale italiana: chitarrista metal-progressive, divulgatore esuberante, volto di culto tra musica e costume, grazie anche a collaborazioni con Renzo Arbore e Carlo Verdone. Come firma storica della rivista Chitarre, ha fatto conoscere in Italia l’universo shred e neoclassico, con Malmsteen come riferimento assoluto. Tra intuizioni geniali e toni da tragedia, Benson è stato un ponte tra cultura pop, virtuosismo e parodia. Impossibile ignorarlo.
DA VEDERE: Benson si è cimentato anche in un memorabile, celeberrimo video didattico: La velocità d’esecuzione nella chitarra metal progressive, in cui, tra scale demoniache e vibrati furibondi, spiega i segreti compositivi ed esecutivi del suo “indimenticabile” classico, “Madre Tortura”.