Foo Fighters, WASTING LIGHT: quando il rock torna a respirare

Con WASTING LIGHT, i Foo Fighters tornano all’analogico: niente computer, solo sudore, nastro e rock vero. Un disco che riscopre la loro anima più autentica

Pubblicato il 12 aprile 2011, WASTING LIGHT dei Foo Fighters  è un disco importante perché rappresenta una scelta controcorrente: un ritorno all’autenticità analogica in un momento storico in cui il rock, pur essendo mainstream, veniva confezionato in modo sempre più digitale, perfetto, levigato. Dave Grohl decide di rompere con questo schema e riabbracciare l’imprevedibilità e il sudore del rock vero. Una scelta sonora e ideologica che dà vita a uno degli album più travolgenti dei Foo Fighters.

Il rock dei primi anni 2000 – soprattutto quello più alternative e vicino al punk – stava vivendo un’enorme popolarità. Grazie allo sviluppo delle registrazioni digitali, che dalla seconda metà degli anni '90 erano diventate lo standard, si poteva portare la precisione, la definizione e l’uniformità delle registrazioni a livelli impensabili. 

Foo Fighters, WASTING LIGHT: quando il rock torna a respirare

Tutto suona uguale

Artisti come My Chemical Romance, Avril Lavigne, Green Day, Nickelback confezionavano dischi pulitissimi, prodotti secondo lo stato dell’arte: era l’epoca dell’editing chirurgico, delle batterie sostituite digitalmente, delle chitarre reampate (registrate in presa diretta e poi fatte passare successivamente attraverso amplificatori veri, suonando sempre perfette… ma anche sempre uguali) e allineate al millisecondo. Un approccio che inizialmente entusiasmava per la potenza e la brillantezza del suono, ma che a lungo andare finiva per anestetizzare la personalità di chi suonava. Questo tipo di trattamento aveva iniziato a intaccare anche il suono dei Foo Fighters, in album come IN YOUR HONOR (2005) e ECHOES, SILENCE, PATIENCE & GRACE (2007). Due dischi solidissimi, certo, ma con un suono che iniziava a sembrare meno umano, meno vibrante. Se una volta bastava una rullata per riconoscere John Bonham o Stewart Copeland da un vecchio disco dei Led Zeppelin o dei Police, ora tutte le batterie – per quanto perfette – suonavano uguali. La batteria, scolpita sulla griglia metronomica del digitale, perdeva anima e personalità. Lo stesso vale per le chitarre: muri di suono impeccabili, ma che non respiravano più, privati della dinamica, dei vibrati, della sporcizia emotiva che rende un riff riconoscibile quanto un volto.

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