02 giugno 2025

Kelly Jones degli Stereophonics: voce ruvida di storie vere

Il DNA degli Stereophonics raccontato attraverso Kelly Jones, anima e penna della band. Storia, stile e tre album fondamentali per capirne l’evoluzione rock.

Kelly Jones, nato il 3 giugno 1974, è molto più della voce degli Stereophonics: è la mente narrativa, la mano che scrive e la chitarra che trascina ogni loro racconto. Roca e inconfondibile, la sua voce è però l’identità profonda di una delle band più longeve del rock britannico post-britpop. Mentre l’ultimo singolo della band, "Make It On Your Own", è in rotazione sulla nostra Top 20, ripercorriamo storia, stile e anima degli Stereophonics attraverso la personalità del loro frontman.

Dallo spirito working class dell’esordio fino alla svolta sonora dei 2000, Jones ha guidato gli Stereophonics con coerenza e urgenza espressiva. Una guida all’ascolto in tre album fondamentali completa questo ritratto essenziale, diretto e pieno di chitarra, proprio come la loro musica.

Su Radiofreccia, Kelly Jones ha presentato il nuovo album degli Stereophonics Make 'Em Laugh, Make 'Em Cry, Make 'Em Wait in un’intervista con Gianluigi Riccardo. Da non perdere!

Kelly Jones degli Stereophonics: voce ruvida di storie vere
PHOTO CREDIT: PA Wire/PA Images / IPA

Lo stile

Kelly Jones, frontman e principale autore degli Stereophonics, si distingue per uno stile che fonde due principali influenze: da una parte il britpop anni ’90, da cui eredita la sensibilità melodica e l’impatto compositivo — canzoni asciutte, dirette, costruite su riff, strofa e ritornello, interamente a supporto di linee vocali estremamente cantabili. Tutto è al servizio della melodia, senza spazio per virtuosismi o arrangiamenti autocompiaciuti. I testi occupano un ruolo centrale: raccontano storie di vita quotidiana, esperienze personali, personaggi realistici e marginali. Jones ha una spiccata attitudine narrativa, dovuta anche ai suoi studi di sceneggiatura, che si riflette nella capacità di evocare immagini visive, cinematografiche, in poche frasi. La seconda grande influenza arriva dal rock classico americano degli anni ’70: Eagles, Creedence Clearwater Revival, Bob Dylan, ma anche Free, Van Halen. Da questi mondi la band assorbe l’amore per i suoni pieni, rotondi, analogici. Gli Stereophonics declinano questo retaggio in chiave moderna con una robustezza sonora che, nei momenti più elettrici e aggressivi, può ricordare addirittura i Foo Fighters per coesione, aggressività e potenza di chitarre e batteria. E proprio nei concerti questa matrice emerge con forza, grazie a un impatto chitarristico che ha sempre avuto Kelly Jones come perno centrale. Il suo approccio alla chitarra è diretto, prevalentemente ritmico ed essenziale: pochi fronzoli, riff incisivi, e melodie orecchiabili anche nella parte strumentale. Quando si concede un assolo, è sempre misurato e al servizio del brano. L’effetto che più spesso utilizza è il wah-wah — reso iconico da Hendrix, ma punto fermo per moltissimi solisti da Kirk Hammett a Tom Morello — con cui scolpisce le sue brevi escursioni soliste. Anche la sua strumentazione dice molto del suo ruolo: nella musica degli Stereophonics, tra produzioni e concerti, Jones alterna tantissime chitarre e amplificatori, utilizzandoli come colori di una tavolozza per, ogni volta, aiutano a trovare le sfumature espressive più giuste, mostrando che per lui la chitarra non è un elemento accessorio, ma una voce ulteriore nella narrazione musicale.


 

Una famiglia di musicisti

Kelly Jones ha raccontato spesso del suo primo approccio allo strumento, ricevuto in eredità musicale dal padre: musicista di working men’s club, con un disco pubblicato da Polydor e in rotazione sul juke-box locale. Il primo tentativo di lezione fu traumatico: provarono con il riff di “Pretty Woman” di Roy Orbison, ma la chitarra acustica aveva corde troppo dure per le sue dita da bambino. Esperienza breve, dolorosa, ma segnante. Poco dopo, Jones forma la sua prima band e debutta live giovanissimo, proprio in uno di quei club dove si esibiva anche il padre. La musica, in casa sua, è una faccenda quotidiana: cassette degli Eagles, Dylan e Creedence Clearwater Revival suonate dai fratelli nel bagno, amplificate da un vecchio stereo portatile. Tanto che quando se ne andavano, portavano via anche la musica — e a lui non restava che rimanere a mollo nella vasca e inventarsi canzoni da cantare. Un'ottima palestra.


Scrivere musica per la gente

Questa propensione naturale a raccontare, a usare la musica come diario e cinema personale, è ciò che rende gli Stereophonics così autentici. Kelly Jones non scrive per moda o per business: “Avere successo per noi è scrivere canzoni che la gente vuole ascoltare. Non importa se siano su vinile, CD o social. Se hai la fissa del successo, non viene fuori niente di buono. Anche un pittore, se pensa che deve fare un quadro per venderlo, farà una crosta”. La voce di Kelly Jones è l’altro ingrediente inconfondibile: roca, graffiata, intensa. In grado di comunicare rabbia, malinconia e tenerezza nella stessa strofa, è diventata il marchio di fabbrica della band. Ha qualcosa di impastato e ruvido che si fa portavoce del vissuto, della strada, dell’onestà emotiva. Non è perfetta, ed è proprio per questo che funziona: perché è credibile.


Tre dischi

Chi volesse avvicinarsi al mondo degli Stereophonics partendo dalle radici più autentiche e dai momenti di svolta più significativi, può partire da tre dischi fondamentali. Album che fotografano al meglio la loro evoluzione, la personalità rock della band e la penna di Kelly Jones, in tutte le sue sfumature:

Word Gets Around (1997)


Il debutto degli Stereophonics è un disco crudo, diretto, profondamente legato alla vita di provincia gallese. Brani come “Local Boy in the Photograph”, “A Thousand Trees” e “Traffic” raccontano storie vere, con una scrittura asciutta e intensa, e un sound chitarristico essenziale e vibrante. È qui che si definisce l’identità della band: realismo lirico, spirito working class e una voce che non si dimentica. Ancora oggi, molte tracce di questo disco sono tra le più amate e suonate dal vivo.

Performance and Cocktails (1999)

Considerato da molti il capolavoro degli Stereophonics, questo secondo album consolida il successo della band nel panorama rock britannico. “The Bartender and the Thief”, “Just Looking” e “Pick a Part That’s New” sono diventati classici moderni, con una scrittura che mescola immediatezza e profondità. Il suono è più compatto e potente, la produzione più definita, ma la band conserva tutta la sua autenticità. È l’album della consacrazione, e non a caso quello più votato dai fan nelle classifiche.

Language. Sex. Violence. Other? (2005)


A questo punto della carriera, gli Stereophonics cambiano marcia. Il sound si fa più duro, tagliente, moderno. L’inno “Dakota” — primo grande successo internazionale della band — apre un disco che non ha paura di osare. Brani come “Superman” e “Devil” mostrano un lato più elettrico e aggressivo, ma senza perdere di vista la centralità delle melodie e dei testi. Il risultato è un album che amplia la portata della band oltre i confini britannici, mantenendo coerenza con lo spirito originario.