01 maggio 2025

Mike Portnoy: tre anime e una sola batteria leggendaria

Virtuoso ma anche improvvisatore e rocker verace: celebriamo Mike Portnoy ripercorrendo tre anime del suo stile con una selezione di brani imperdibili.

In occasione della recente intervista realizzata per Radiofreccia, celebriamo Mike Portnoy con una retrospettiva che ne racconta la straordinaria carriera attraverso le sue tre anime musicali: il virtuoso cerebrale dei Dream Theater, il batterista istintivo e votato all’interplay nei Liquid Tension Experiment, e il rocker verace dei Winery Dogs. Tre approcci diversi, ma tutti firmati dallo stesso stile inconfondibile. Una guida ideale per (ri)scoprire la forza espressiva di uno dei batteristi più influenti degli ultimi decenni, accompagnata da una piccola selezione di brani emblematici.

Quando si parla di batteristi che hanno contribuito a far evolvere suono e linguaggio del progressive metal, citare Mike Portnoy è d’obbligo. La sua avventura con i Dream Theater nasce alla fine degli anni ’80, quando insieme ad alcuni compagni del Berklee College of Music decide di inseguire la passione per la musica senza pensare a contratti, classifiche o successo. «Quando ci siamo ritrovati al Berklee, volevamo solo fare musica per divertirci», ha raccontato in varie interviste. «Eravamo semplicemente ragazzi appassionati di Iron Maiden e Rush, con il sogno di creare musica heavy e progressiva. Ci siamo talmente immersi in quella musica che è diventata il nostro motivo di vita.»

Mike Portnoy: tre anime e una sola batteria leggendaria
PHOTO CREDIT: Elena Di Vincenzo

La rivoluzione prog dei Dream Theater

Con l’arrivo dei Dream Theater sulla scena, il panorama rock venne travolto da un'ondata di virtuosismo e creatività, supportati da una eccezionale potenza e modernità di suono: brani monumentali, tempi dispari, arrangiamenti complessi e assolo infiniti. In questo contesto, Portnoy era l’alter ego del leader e chitarrista John Petrucci: trainava la band attraverso gincane musicali progressive, seduto dietro il suo mastodontico set a doppia cassa, perfettamente a suo agio nel domare strutture metriche e sonore impossibili. Ma non era solo questione di tecnica. Portnoy ha sempre sottolineato come il suo obiettivo non fosse la mera dimostrazione di abilità, bensì la volontà di servire la musica: energia, dinamica e personalità erano al centro del suo approccio. «Da allora a oggi, è stato un sogno che si è realizzato. Siamo molto orgogliosi di ciò che abbiamo raggiunto», ha dichiarato, ripensando al percorso fatto con i Dream Theater. Il suo contributo ha riconfermato la vocazione della batteria come uno strumento protagonista nel rock, soprattutto in quello più duro e tecnico. Uno strumento capace – tanto quanto quelli melodici e armonici – di raccontare storie anche solo attraverso ritmo, dinamiche e arrangiamenti nelle complesse architetture del prog-metal. Con i Dream Theater, Mike Portnoy non ha solo suonato la batteria: ha aperto nuove strade di suono, stile e carattere per tutto il mondo del rock progressivo.

 

Oltre la tecnica, l’istinto rock 
Parlare di Mike Portnoy, quindi, significa raccontare uno dei batteristi più influenti e versatili del panorama rock e progressive degli ultimi decenni. Un musicista capace di lasciare un’impronta profonda tanto tra gli amanti del virtuosismo estremo quanto tra chi cerca nella batteria quel mix di energia, personalità e gusto rock che va ben oltre la pura tecnica. Perché se con i Dream Theater o nei suoi altri progetti più tecnici come i Liquid Tension Experiment e il super quartetto insieme a Billy Sheehan, Tony MacAlpine e Derek Sherinian, Portnoy ha spinto l’acceleratore sulla complessità e sulla spettacolarità tecnica — trasformando ogni brano in un esercizio di funambolismo musicale — nelle sue digressioni più “veraci” ha dimostrato di saper mettere la stessa classe al servizio dell’impatto e dell’immediatezza. Progetti come i Sons Of Apollo e i Winery Dogs raccontano infatti un altro lato di Portnoy: sempre contaminato dal prog e da un tasso tecnico altissimo, ma con un’anima più rock, più groove, più diretta. A confermare questa versatilità, c’è anche la splendida avventura dei Yellow Matter Custard con Paul Gilbert nel progetto-tributo ai Beatles. Per celebrare questa carriera sfaccettata, proponiamo una piccola selezione di brani in cui Mike Portnoy ha letteralmente fatto esplodere la batteria tra tecnica, potenza ed espressività. Tre esempi clamorosi di come tecnica, cuore e istinto possano convivere dietro le pelli.


Tre anime

I tre brani che abbiamo selezionato raccontano le tre anime di Mike Portnoy. Tre facce distinte, ma profondamente interconnesse, che danno la misura della sua rilevanza come batterista. La prima è quella del virtuoso prog, legato a un approccio cerebrale, quasi “ingegneristico” alla batteria: un mix di cura maniacale per l’esecuzione, tempi impossibili, tecnica esasperata. Ma la grandezza dei Dream Theater — e di Portnoy dentro di essi — è proprio quella di riuscire a piegare tutto questo alla forma canzone. Non c’è mai autocompiacimento fine a sé stesso: anche il passaggio più funambolico resta al servizio della composizione, conservando una musicalità sorprendente, nonostante le architetture spesso complicatissime.

Dream Theater – “The Dance of Eternity” (METROPOLIS PT. 2: SCENES FROM A MEMORY, 1999)


Un tour de force tecnico e compositivo che sintetizza il meglio del Portnoy prog: oltre 100 cambi di tempo, passaggi che mescolano metal, jazz, swing e rock, uso del doppio pedale e dinamiche mozzafiato. Ma al di là della tecnica, qui si apprezza il batterista compositore: ogni colpo è pensato per dialogare con gli altri strumenti, valorizzare la narrazione musicale, servire la canzone. È uno dei vertici assoluti della sua carriera e della poetica Dream Theater: virtuosismo spinto al massimo, ma mai scollegato dal senso del brano.



La seconda anima è quella più aperta, libera, istintiva: nei Liquid Tension Experiment, Portnoy mette in campo tutta la sua tecnica dentro un contesto meno “scritto” e più votato all’interplay, al dialogo musicale in tempo reale, in una direzione che guarda più alla fusion o al jazz che al metal. Il supergruppo — composto da lui, Petrucci e Rudess (tre quinti dei Dream Theater dell’epoca), insieme a una leggenda assoluta come Tony Levin, bassista di King Crimson e Peter Gabriel — ha rappresentato un laboratorio creativo formidabile, dove le barriere tra i generi vengono abbattute a colpi di groove e di intuizioni istantanee.

Liquid Tension Experiment – “Paradigm Shift” (LIQUID TENSION EXPERIMENT, 1998)


Un brano che è una tempesta sonora, aperto da un unisono a dir poco terrificante: Portnoy mette in mostra tutta la sua tecnica con fill complessi, doppio pedale massiccio e una varietà di pattern che spazia da groove granitici a passaggi rapidissimi, alternando tempi dispari e momenti in 4/4 con una fluidità disarmante. Ma il vero cuore di “Paradigm Shift” è l’interplay: Portnoy suona come un jazzista prestato al metal, reagendo in tempo reale agli stimoli di John Petrucci, Jordan Rudess e Tony Levin. Ogni colpo è risposta, ogni accento un invito. La batteria diventa voce narrante, guida e complice, capace di muoversi tra sezioni sincopate e aperture melodiche con un istinto musicale fuori dal comune.



Infine, c’è la terza anima, quella più ruvida e verace: il legame profondo con il classic rock e l’hard rock vecchia scuola. Portnoy è cresciuto con i Led Zeppelin, i Cream, i Rush… e con quell’idea di batteria viscerale, fatta di suono, impatto, attitudine. Un’eredità che si ritrova intatta nei suoi Winery Dogs, dove insieme a Billy Sheehan e Richie Kotzen sfoggia un batterismo solido, potente, ricco di personalità, perfettamente a fuoco in un contesto più immediato e meno cervellotico. Un sound che guarda dritto agli anni ’80 e a quella scena chitarristica che ha prodotto band come Mr. Big, Extreme, Winger, Poison, e ovviamente i Van Halen.

The Winery Dogs – “Oblivion” (HOT STREAK, 2015)


Con “Oblivion” Portnoy mostra il suo lato più diretto e viscerale: niente labirinti ritmici, ma un groove robusto, dal taglio hard rock, con venature blues che sostengono il riffing infuocato di Richie Kotzen e il basso granitico di Billy Sheehan. Qui Portnoy non punta sulla complessità, ma sulla solidità: costruisce un ritmo compatto, incisivo, perfettamente calibrato sull’energia del brano. La tecnica non scompare, ma viene dosata con intelligenza: accenti precisi, fill gustosi, piccoli slanci di virtuosismo che impreziosiscono il pezzo senza mai rubare spazio alla canzone. È la prova che si può suonare con classe e potenza anche restando nella forma più pura e comunicativa del rock.