27 maggio 2025

Pink Elephant: gli Arcade Fire incontrano il tocco magico di Daniel Lanois

Il nuovo disco degli Arcade Fire si apre alla profondità emotiva e sonora di Daniel Lanois, tra introspezione, ambientazioni cinematiche e rock evocativo.

La presenza del singolo “Pink Elephant” degli Arcade Fire nella nostra Top 20 ha acceso la curiosità attorno al nuovo, omonimo disco della band canadese. Un brano rock intimo, quasi sonnolento e che si apre su più livelli di suono e influenze; ci ha spinti ad ascoltare l’intero omonimo album con maggiore attenzione e prospettiva.

Proviamo a raccontare Pink Elephant filtrandolo attraverso la sensibilità di Daniel Lanois, produttore visionario già al lavoro su capolavori come The Joshua Tree (1987) degli U2, oppure So (1986) di Peter Gabriel. La sua estetica sonora, densa e cinematica, è la lente privilegiata con cui esploriamo questo nuovo capitolo degli Arcade Fire.

Pink Elephant: gli Arcade Fire incontrano il tocco magico di Daniel Lanois

Deus Ex Machina

Su Radiofreccia ci siamo spesso appassionati a raccontare la storia dei grandi dischi attraverso i loro produttori artistici: figure che, più di quanto si immagini, hanno indirizzato e modellato l’identità sonora di un album. Veri e propri Deus Ex Machina che, in modi diversi e spesso decisivi, hanno saputo accompagnare la visione dell’artista, traducendola in opere memorabili. C’è chi, come David Kershenbaum, ha puntato tutto sull’essenzialità e la forza narrativa di una giovane cantautrice come Tracy Chapman, sostenendola nell’esordio di "Fast Car" con un progetto acustico e intimista proprio mentre il pop e il rock mainstream esplodevano in sintetizzatori, look plastificati e produzioni iper costruite. 
C’è chi ha sfidato le band a uscire dalla propria comfort zone, abbracciando suoni più stratificati, organici, a costo di qualche frizione e tradimento di intenti: Michael Beinhorn ha fatto questo con le Hole in Celebrity Skin (1998), Gil Norton con i Foo Fighters in The Colour And The Shape (1997), Rob Cavallo con i Green Day in American Idiot (2004). 
E poi ci sono stati produttori capaci di intuire che la chiave del successo fosse esaltare proprio l’anomalia, la parte più impensabile e scomoda di una band: come Chris Thomas, che ha prodotto NEVER MIND THE BOLLOCKS (1977) dei Sex Pistols con la precisione di un album pop, o che ha scolpito l’estetica brillante e ibrida di KICK (1987) degli INXS, dando tempra rock da classifica agli elementi funk, pop e dance di partenza.

In questa galleria di nomi, uno dei più poetici e visionari è senza dubbio Daniel Lanois. Formatosi all’ombra del gigante Brian Eno, da cui ha assorbito l’arte della manipolazione sonora e delle ambientazioni immersive, Lanois ha poi iniziato a brillare di luce propria, firmando produzioni che sono entrate nella storia. 
Una delle sue cifre distintive è la ricerca costante di spazialità e profondità attraverso l’uso di texture ambientali, layering stratificati e ambienti di registrazione non convenzionali. Il risultato è un suono avvolgente, atmosferico, ma mai fine a sé stesso: sempre al servizio della narrazione e dell’identità emotiva di un disco. È con questo bagaglio unico che Daniel Lanois firma la produzione di The Pink Elephant, nuovo album degli Arcade Fire. E ascoltarlo tenendo presente la sua sensibilità, aiuta a coglierne sfumature, ambizioni e incanti.


Ancorati al proprio DNA

Pink Elephant sorprende senza stravolgere. E’ un disco che mette da parte i riflessi più artificiali della produzione recente degli Arcade Fire, per riscoprire un suono più vivido, umano, materico. Non è un ritorno alle origini né una rivoluzione, ma un assestamento: un disco che cerca più la connessione emotiva che l’effetto sorpresa. E nonostante alcune anticipazioni parlassero di un ritorno a sonorità punk, l’album resta ancorato al DNA degli Arcade Fire: indie rock, art pop e malinconie postmoderne, arricchite da qualche deviazione imprevista. Brani come “Alien Nation” sconfinano in territori rumorosi e abrasivi, dove le distorsioni si fanno sempre più estreme fino a rispolverare – nel climax finale – i bassi distorti e molesti della dubstep. L’elettronica e i sintetizzatori non sono scomparsi, anzi: fanno capolino in modo sfacciato e ironico in “Circle of Truste”, il cui groove suona come un omaggio colto alla Kylie Minogue di “Can’t Get You Out Of My Head”. Oppure in “I Love Her Shadow”, brano sostenuto da una drum machine e incastonato in un delicato equilibrio tra inquietudine cantautoriale, introspezione indie e frivolezza synth pop. Anche qui, però, non si tratta di una svolta stilistica radicale, ma piuttosto di declinazioni espressive che arricchiscono l’atmosfera malinconica e insieme sognante del disco.


A guidare il racconto ci sono come sempre Win Butler e Régine Chassagne, coppia fondatrice e anima artistica del progetto, che in Pink Elephant si confrontano più con l’introspezione che con la sperimentazione pura. La produzione – solo in apparenza scarna – è in realtà un delicato intreccio di timbriche acustiche, elettronica sfumata e vibrazioni nostalgiche, il tutto sostenuto da una solida pulsazione rock. Il singolo “Pink Elephant” incarna perfettamente questa cifra, con chitarre e batteria che citano, senza timore, le atmosfere care a Daniel Lanois: tra riverberi alla The Joshua Tree e suggestioni vocali alla Neil Young elettrico.


La produzione di Daniel Lanois

Daniel Lanois ha portato negli Arcade Fire la sua tipica attenzione alle stratificazioni sonore e all’atmosfera, creando un tessuto musicale denso, evocativo, spesso cinematico. La presenza di diversi momenti strumentali è una chiave per cogliere il suo apporto più profondo, non solo come produttore, ma come artista del suono. L’apertura con “Open Your Heart or Die Trying” ci fa scivolare dentro il disco attraverso una nube di synth e riverberi, come fosse un ingresso liquido e meditativo in un mondo parallelo. I vocoder inquietanti e fantascientifici di “Beyond Salvation” o il crescendo epico e sinistro – quasi alla Twin Peaks – di “She Cries Diamond Rain”, costruiscono veri e propri ponti ambientali tra i brani più canonici, riprendendo l’impronta delle storiche collaborazioni tra Lanois ed Eno. Come detto, la produzione si distingue per la capacità di amalgamare acustico, elettronico, rock e ambient in un’unica tavolozza espressiva. Una complessità che restituisce anche il riflesso del momento fragile e travagliato vissuto dalla band. Daniel Lanois ha permesso agli Arcade Fire di esplorare nuove sfumature restando fedeli alla propria voce, alternando intimità e aperture epico-anthemiche con  naturalezza.