20 maggio 2025

Quando i Foo Fighters divennero davvero una band: la svolta di The Colour and the Shape

"The Colour and the Shape" è il capolavoro dei Foo Fighters. La storia del disco che li ha trasformati in una vera band, tra visione, suono e precisione.

Pubblicato il 20 maggio 1997, The Colour and the Shape è il secondo album dei Foo Fighters. Dave Grohl affianca a Pat Smear, Nate Mendel e William Goldsmith il produttore Gil Norton per realizzare un’opera più matura e strutturata.

Dopo una prima fase fallimentare, Grohl rientra in studio e registra da solo chitarre e batteria, creando un interplay micidiale che darà al disco una potenza e una coesione uniche. Ne nasce un album destinato a cambiare il suono dell’alternative rock, un disco che a distanza di quasi trent’anni, è da ascoltare in cuffia - con attenzione - per bearsi di una delle più grandiose esecuzioni e registrazioni rock di sempre. Oltre, naturalmente, a godersi lo stato dell’arte del songwriting di Dave Grohl in classici come "Monkey Wrench", "Everlong", "My Hero", "Walking After You"...

Quando i Foo Fighters divennero davvero una band: la svolta di The Colour and the Shape

Evolvere dal punk

The Colour and the Shape è l’espressione della volontà di evolvere di Dave Grohl. Il primo disco, l'omonimo Foo Fighters del 1995, era stato un magnifico incidente: una raccolta di brani grezzi, registrati in appena cinque giorni, con una freschezza, solarità ed energia punk che compensavano la produzione ruspante, appena sufficiente per un demo. Ancora più romantico, il fatto che fosse stato praticamente suonato tutto da Dave Grohl stesso, che si era diviso tra batteria, basso, chitarre e naturalmente voce. Un successo che premiava l’urgenza e la sincerità di un album che molti accolsero con l’affetto riservato a una rockstar che, a pochi mesi dalla tragedia della scomparsa di Kurt Cobain, aveva trovato la forza di rimettersi in piedi e ricominciare. Una reazione coraggiosa e istintiva alla fine drammatica della sua band precedente – i Nirvana – una delle più grandi formazioni della storia del rock, protagonisti della rivoluzione musicale più significativa dopo l’ondata punk: il grunge. Grohl sentiva però il bisogno di andare oltre. Quell’approccio diretto, essenziale – in una parola, punk – alla produzione e registrazione era stato ampiamente esplorato. Anche i dischi dei Nirvana, pur con ottimi produttori, erano esteticamente delle istantanee crude e potenti di un power trio che suonava con furia, volume e ispirazione, quasi live. Grohl non voleva rinunciare ai muri di chitarre distorte, all’energia furiosa del punk, al basso e alla batteria che pestano come fabbri. E non intendeva certo aprirsi a inserti di elettronica o contaminazioni crossover, tanto in voga nella seconda metà degli anni ’90. Ma voleva che quella formula evolvesse. Sognava un rock più strutturato, organizzato, arrangiato in modo quasi sinfonico: con stratificazioni di chitarra che si aprissero su armonie inedite per l’alternative rock, e con una precisione e una pulizia da disco pop. E siccome questo non è un lavoro che si può fare da soli, Grohl arruola una band vera: il chitarrista Pat Smear, già al suo fianco come seconda chitarra nei Nirvana; il bassista Nate Mendel e il batterista William Goldsmith. Tutti e tre provenivano dalla scuola punk, dove il sentimento e l’attitudine contano più della precisione. Un dettaglio non da poco, considerando che l’asso nella manica di Grohl era proprio l’uomo che della precisione nei dischi aveva fatto una religione: il produttore artistico Gil Norton.


Una partenza difficilissima

Gil Norton era stato scelto da Grohl proprio perché meticoloso, esigente, fautore di una nuova idea di rock – punk, grunge, alternative che fosse – più moderno e aggressivo, ma anche più definito, preciso e ottimizzato in produzione e arrangiamento. L’intento era di mantenere la cattiveria sonora e l’irruenza esecutiva, affiancandole però a una pulizia e una solidità da grande rock classico. La stessa formula che aveva reso leggendario Never Mind the Bollocks dei Sex Pistols, prodotto da Chris Thomas – lo stesso di Beatles, Pink Floyd e INXS. Dave Grohl si era innamorato di questo approccio ascoltando un disco rimasto schiacciato – ironia della sorte – proprio dal successo di Nevermind, l’album che lo aveva reso celebre: Trompe Le Monde dei Pixies (1991). Un lavoro eccentrico e brillante, capace di incorniciare le composizioni più abrasive della band di Boston in un contesto sonoro ampio, stratificato ma sorprendentemente accessibile. Un album idolatrato dalla critica, ma rimasto in ombra presso il grande pubblico. Con questa ispirazione in testa, The Colour and the Shape prese il via il 18 novembre 1996, ai Bear Creek Studios: uno studio residenziale immerso nel verde dello stato di Washington. Ma fin dalle prime battute, fu chiaro che qualcosa non stava funzionando. I musicisti, come detto tutti di estrazione punk, faticavano a rispondere alle richieste di Norton che pretendeva precisione chirurgica, cura del suono, una visione complessiva degli incastri tra gli strumenti. E la sezione ritmica, Mendel al basso e Goldsmith alla batteria – soprannominati da Norton “la sezione senza ritmo” – finì presto nel mirino. Il batterista  Goldsmith, in particolare, fu sottoposto a sessioni estenuanti: «Dave mi fece fare 96 take della stessa canzone, e per un altro pezzo registrai per 13 ore di fila» raccontò anni dopo. «Sembrava che nulla di quello che facevo fosse mai abbastanza buono per lui o per gli altri. Avevo la sensazione che tutti volessero che fosse Dave a suonare la batteria. Anche Gil lo desiderava, e sembrava che stessero cercando di spingermi a lasciare la band.» Dopo settimane di frustrazione, con l’arrivo delle vacanze natalizie, band e produttore decisero di fermarsi. Grohl tornò nella casa di sua madre in Virginia portandosi dietro i nastri. Li riascoltò ossessivamente. Ma più li sentiva, più le performance gli sembravano rigide, forzate. «Deve venire fuori qualcosa di meglio di questo» disse, deluso, a Pat Smear.


La svolta: Dave Grohl alla batteria

A quel punto, si decide di tagliare la testa al toro: le registrazioni vanno rifatte da zero. Si cambia città, si cambia studio, si cambia tutto. La band si trasferisce ai Grandmasters Recorders di Los Angeles. Serve procedere in modo più concentrato, spedito, ordinato. Non c’è più tempo per aspettare che il batterista William Goldsmith riesca a raggiungere gli standard di precisione richiesti da Gil Norton. E proprio come Goldsmith aveva temuto, Dave Grohl prende una decisione netta: lasciarlo a casa e registrare lui stesso tutte le parti di batteria. Così Grohl ha raccontato la vicenda: «Avevo pensato di registrare io la batteria, perché stavamo finendo il tempo e William faceva fatica in studio» – ha raccontato – «Mi sono detto: “Ok, per risparmiare tempo incido io questi nuovi brani, poi magari Will rifà le altre parti”. Ma lui lo venne a sapere, e disse: “Non sono d’accordo. Non voglio più far parte della band.” Molti pensano che sia stato cacciato, ma in realtà fu lui a mollare.» E ancora, nel documentario Back and Forth: «So che William non mi perdonerà mai per aver suonato la batteria su quel disco. Lo so. E vorrei che le cose fossero andate diversamente. Ma era l’unico modo per far succedere questo disco.» Anche se può sembrare una mossa spietata, una scelta cinica da leader che sacrifica la coesione del gruppo, sarà proprio questa la svolta decisiva. Il fatto che batterie e chitarre portanti del disco siano suonate da Grohl crea una coesione di suono e ritmo rara, un interplay perfetto, quasi divino. Una potenza e una solidità che diventano la spina dorsale del disco e che finalmente ispirano anche le performance degli altri musicisti, portandole a quel livello maniacale di accuratezza che Gil Norton pretendeva. The Colour and the Shape diventerà un riferimento assoluto: il paradigma della potenza e della pulizia sonora che caratterizzerà il rock degli anni 2000. Con un dettaglio tutt’altro che secondario: il disco è stato registrato in analogico, senza editing digitale, senza correzioni, senza post-produzione a cucire le imperfezioni. La precisione che si ascolta non è effetto di maquillage da studio, ma il frutto di una band vera, ispirata, che suona a un livello superiore. Un nuovo standard nel modo di registrare e interpretare il rock.

 

Chitarre pazzesche

Meritano una considerazione a parte le chitarre di questo album, destinate a fare scuola nei decenni successivi. Non solo consacrano Dave Grohl come uno dei chitarristi da band più efficaci della storia – per suono, attitudine, ma soprattutto per la creatività nell’intrecciare parti diverse – ma portano solarità, vivacità e ricchezza melodica in un genere che, fino ad allora, spesso faticava ad andare oltre i power chord: quegli accordi essenziali da due o tre note, amatissimi nei generi più veloci e aggressivi per la loro facilità d’uso nei riff forsennati. Brillante anche la visione sonora di Grohl, che seleziona la strumentazione in modo originale e, per certi versi, controcorrente. In un’epoca in cui il metal aveva spinto l’industria verso una rivoluzione tecnologica – con suoni ipercompressi e setup pensati per band come Metallica, Megadeth, Pantera, Sepultura – Grohl sceglie un arsenale dal gusto più vintage per tirare fuori la cattiveria di questo album: chitarre Gibson, amplificatori Vox (gli stessi di Beatles e Queen), e Fender (perfetti per sonorità blues e clean), e casse Marshall, un classico da Hendrix ai Deep Purple. A questi abbina però, con intelligenza e visione, nuovissimi amplificatori Mesa Boogie, che si stavano imponendo nella scena heavy. Il risultato? Un sound scolpito, incredibile per l’epoca: coeso e definito come un disco metal, ma allo stesso tempo vivo, pulsante e sporco come la miglior tradizione grunge. Una miscela visionaria, che farà scuola. E poi c’è un dettaglio che emoziona. Per registrare le sue parti di chitarra su questo disco, Pat Smear si portò in studio la stessa amplificazione che Kurt Cobain usava nei live!