"The Colour and the Shape" è il capolavoro dei Foo Fighters. La storia del disco che li ha trasformati in una vera band, tra visione, suono e precisione.
Pubblicato il 20 maggio 1997, The Colour and the Shape è il secondo album dei Foo Fighters. Dave Grohl affianca a Pat Smear, Nate Mendel e William Goldsmith il produttore Gil Norton per realizzare un’opera più matura e strutturata.
Dopo una prima fase fallimentare, Grohl rientra in studio e registra da solo chitarre e batteria, creando un interplay micidiale che darà al disco una potenza e una coesione uniche. Ne nasce un album destinato a cambiare il suono dell’alternative rock, un disco che a distanza di quasi trent’anni, è da ascoltare in cuffia - con attenzione - per bearsi di una delle più grandiose esecuzioni e registrazioni rock di sempre. Oltre, naturalmente, a godersi lo stato dell’arte del songwriting di Dave Grohl in classici come "Monkey Wrench", "Everlong", "My Hero", "Walking After You"...
Evolvere dal punk
The Colour and the Shape è l’espressione della volontà di evolvere di Dave Grohl. Il primo disco, l'omonimo Foo Fighters del 1995, era stato un magnifico incidente: una raccolta di brani grezzi, registrati in appena cinque giorni, con una freschezza, solarità ed energia punk che compensavano la produzione ruspante, appena sufficiente per un demo. Ancora più romantico, il fatto che fosse stato praticamente suonato tutto da Dave Grohl stesso, che si era diviso tra batteria, basso, chitarre e naturalmente voce. Un successo che premiava l’urgenza e la sincerità di un album che molti accolsero con l’affetto riservato a una rockstar che, a pochi mesi dalla tragedia della scomparsa di Kurt Cobain, aveva trovato la forza di rimettersi in piedi e ricominciare. Una reazione coraggiosa e istintiva alla fine drammatica della sua band precedente – i Nirvana – una delle più grandi formazioni della storia del rock, protagonisti della rivoluzione musicale più significativa dopo l’ondata punk: il grunge. Grohl sentiva però il bisogno di andare oltre. Quell’approccio diretto, essenziale – in una parola, punk – alla produzione e registrazione era stato ampiamente esplorato. Anche i dischi dei Nirvana, pur con ottimi produttori, erano esteticamente delle istantanee crude e potenti di un power trio che suonava con furia, volume e ispirazione, quasi live. Grohl non voleva rinunciare ai muri di chitarre distorte, all’energia furiosa del punk, al basso e alla batteria che pestano come fabbri. E non intendeva certo aprirsi a inserti di elettronica o contaminazioni crossover, tanto in voga nella seconda metà degli anni ’90. Ma voleva che quella formula evolvesse. Sognava un rock più strutturato, organizzato, arrangiato in modo quasi sinfonico: con stratificazioni di chitarra che si aprissero su armonie inedite per l’alternative rock, e con una precisione e una pulizia da disco pop. E siccome questo non è un lavoro che si può fare da soli, Grohl arruola una band vera: il chitarrista Pat Smear, già al suo fianco come seconda chitarra nei Nirvana; il bassista Nate Mendel e il batterista William Goldsmith. Tutti e tre provenivano dalla scuola punk, dove il sentimento e l’attitudine contano più della precisione. Un dettaglio non da poco, considerando che l’asso nella manica di Grohl era proprio l’uomo che della precisione nei dischi aveva fatto una religione: il produttore artistico Gil Norton.
