Radiofreccia File : Teen Spirits

Nel nuovo episodio dei file aperti da Nessuno si parla dell'epopea grunge e degli spiriti ribelli che l'hanno fatta. Seattle oltre Cobain.

Questa storia inizia con una semplice, leggera ed innocente...presa per il culo. Kurt aveva fatto serata con un'amica cantante. Lei si chiamava Kathleen Hanna e quella notte aveva scritto con la vernice sul muro: "Kurt smells like teen spirit" ("Kurt profuma di Teen Spirit"). Col senno di poi, viene da dire: cazzo, che frase pazzesca. Se non fosse che all'epoca il Teen Spirit era un deodorante per adolescenti molto in voga, soprattutto tra le ragazze. Ma a Kurt questo interessava poco e una dedica del genere equivaleva un po' ad augurare a qualcuno di avere per tutta la vita la rabbia dei sedici anni. Definire cos'erano lui e quella musica, all'epoca, era davvero complicato per cui facciamo un passo indietro, anzi in avanti. È una scena caotica, shockata, squarciata da uno sparo. È tutto fuorché tranquilla, la Seattle di metà anni Novanta. Cobain è appena passato alla storia trascinando con sé un'immagine di rara bellezza e dannazione.

Il grunge è stata un'onda anomala arrivata a spazzare via la tosse elettronica degli anni Ottanta, una sorta di Transformer evocato per scacciare le armate di sintetizzatori che avevano colonizzato il music business. Si ritorna alle origini del rock ma con la rabbia del punk, una sorta di “ti sputo in faccia la verità, la mia verità, ma fammi masticare un po' di chiodi prima”. Aprire questo file vuol dire guardare oltre l'ombra dell'angelo biondo di Aberdeen, alle voci e alle vite che hanno fatto compagnia a molti di noi, senza però trovarla per loro. E infatti, spesso e volentieri, l'hanno cercata altrove. L'hanno chiamato grunge perché chi lo suonava era sudicio, con i capelli lunghi e sporchi, le camicie di flanella che puzzavano di birra e fumo e i jeans strappati. Quando, a Olympia, circa 60 miglia da Seattle, Bruce Pavitt fonda la SubPop, la casa discografica, di fatto compie un atto di necromanzia e resuscita quell'incazzatura che non si sente da tempo. Il risultato, qualche anno dopo, è che nessuno si vergogna più di andare a scuola in un maglione senza forma. Senza dimenticare il deodorante al sentore di teen spirit, si capisce. Sai com'è. Serve a coprire l'ormone acido di una generazione intera, pronta, come un proiettile, a scoppiare.

Benvenuti negli anni '90, quelli del “mi copro la faccia con i capelli, mi infilo in un sacco. Io non so chi sei, tu non sai chi sono”. La prima fermata di questo viaggio, che ci crediate o meno, è una visita al tempio e ai due sacerdoti che hanno appena salutato un profeta. Ma non è quello che state pensando. Ve l'ho detto, oltre l'angelo biondo di Aberdeen. Siamo parecchio fortunati. Dobbiamo ammetterlo. Quando sentiamo qualcuno che dice “I'm going hungry”, cioè “mi sta venendo fame”, nella vita di tutti i giorni, quasi rispondiamo automaticamente con frasi come, non so, “di cosa hai voglia?”, “preferisci questo o quello”. Giusto? Perché siamo fortunati, perché viviamo in tempi di velluto, dove compriamo il caldo quando abbiamo freddo o stappiamo un collutorio quando abbiamo sete. Intendiamoci, trent'anni fa non era certo il Medioevo, le condizioni socio-economiche erano grossomodo quelle di oggi, eppure qualcosa di diverso c'era. Non era certo il sandwich al burro d'arachidi a essere diverso, casomai era la fame. Però non c'era questa consapevolezza capillare, l'informazione, la mano dei media che ci schiaccia il collo e ci costringe a guardare immagini che non abbiamo chiesto di vedere.

Certo, va anche detto che la mano dei media che ci schiaccia il collo spesso è anche la nostra e siamo noi a illuderci di cercare uno svago decente mentre siamo seduti sulla tazza. Ma questo è un altro discorso. A volte, per una strana logica che non c'entra con la morale, casomai con l'istinto, ci sentiamo meglio se troviamo qualcuno che sta peggio di noi. Se qualcuno ha dei casini più grossi della nostra solitudine, tipo la fame vera. Come sarebbe stata allora la risposta delle larghe camicie di Seattle con questi mezzi d'informazione? Per noi MTV era la mecca digitale, mica internet. Col senno di poi, quanta acqua sotto ai ponti, eh? Insomma, quella risposta sonora, più violenta, o meno? Non c'è risposta, lo sappiamo tutti. Di definizioni in materia ne sono state date tante. Vi dico la mia. Secondo me, il grunge, è uno scherzo che ti si ritorce contro. Nasce per offendere e finire per pentirsene. È un nido fatto col fango e le spine, che custodisce, in attesa che si schiuda, una generazione di ragazzi riparati dall'oceano e da quelle enormi foreste al confine con il Canada sulla costa degli Stati Uniti. 

In ogni nidiata c'è sempre qualche uovo che scalpita. Uno dei primi a liberarsi è Andrew Patrick Wood, che da ragazzino si faceva chiamare Andrew the Love Child, il figlio dell'amore, con la stessa presunzione giovanile che ti vieta di capire che dell'amore non si può capire proprio un cazzo. Se permettete un paragone scomodo, per far capire a chi non abbia mai sentito nominare Andrew Wood quanto sia stato importante, pensate a Marc Bolan negli anni Settanta. Ecco, Wood è stato per il grunge un po' quello che Bolan è stato per il glam. Provo con una metafora. Pensare a Bowie senza prima Bolan o al grunge senza Andrew Wood è come pensare al Real Madrid non senza un campione, ma senza le scarpe. Bravissimi, eh. Ma si fa prima. Molte band hanno raccontato la sua storia, e lo hanno diventare una sorta di angelo custode del movimento e lo sentirete. Capelli lunghi e ossigenati, canotta 32 dei Lakers, guanti di pelle nera. Come è stato per Cobain, spesso si cade nell'errore di considerare solo la parte distruttiva di questa gente. Non ho detto lesionista, ma distruttiva. La verità è ogni corto circuito ha bisogno di due punti di contatto e se da una parte c'è la voglia di sfondare a testate il muro dell'ordine costituito, dall'altra c'è l'ambizione di farlo una volta arrivati in cima. Diventando anche famosi, conosciuti come le grandi città ma mantenendo, e qui ecco la scossa, la stessa autonomia dei provinciali.  Andrew Wood si era disintossicato per l'uscita di Apple, il disco dei Mother Love Bone, la sua band. Ora, chi si è disintossicato da poco non alza le difese, anzi. La prima ricaduta può essere letale, perché la dose che prima era tollerata adesso è troppa. Ed è proprio quello che accade. Tre giorni dopo, quando i genitori acconsentono a staccare la spina, attorno al letto ci sono Chris Cornell, Stone Gossard, Jeff Ament e Xana, la fidanzata che gli taglia una ciocca di capelli e mette su “A Night At The Opera” dei Queen. La canzone che avete sentito prima si chiama Hunger Strike, dei Temple of The Dog, ovvero una delle band che sono un album di figurine con sopra scritto Grunge. Dentro c'è parecchia gente che ha fatto la storia di questo suono.

Cornell e Vedder, i due sacerdoti in saluto del profeta, su tutti. Bene, il nome Temple of the Dog lo prendono proprio da una canzone scritta da Andrew Wood che si chiama Man of Golden Words. L'uomo dalle parole d'oro. Vedrete che viene da crederci. La vita di Andrew Wood è talmente veloce che vive un anno per ogni ora del giorno. Se ne va a 24. È il 1990 e questa è una delle tante volte che il grunge muore ancora prima di diventare grande.

Quando si parla di anime dannate si pensa sempre al diavolo che, per averle, si dice offra loro qualcosa. Non so se avete presente, sarà anche questione di anima, però in tutti i film in cui si vede lo scambio alla fine a rimetterci è sempre il corpo. Dell'anima non c'è traccia. E poi si parla di vita eterna, tsè. Figuriamoci. Ce ne sono tante, di anime cadute, in questa storia, lo sapete già per cui è inutile far finta che vada a finire bene. C'è anche una voce, è quella di un uomo che negli ultimi anni della sua vita sembra quasi un bambino ma con gli occhi di un uomo di cento anni. Canta in una band, il nome è quello di una ragazza in catene. Alice, si chiama. Forse sta in catene perché ha le sue dipendenze e se la storia è vera, riesce anche a scapparne via, caso strano qua in mezzo. Lei, non si può dire certo la stessa cosa di lui. Diventare sdolcinati è un attimo, ma è inevitabile pensare che chi se le meritava, le catene, fosse il padre. Non di Alice, ma di Layne, il cantante. Com'era il padre? Beh, diciamo che pare fosse un tossico, che abbia mollato tutto, famiglia compresa, per andare a mangiarsi la notte e che si sia fatto vivo dopo 20 anni perché aveva visto una foto del figlio sul giornale e che una volta tornato abbia convinto il figlio stesso a farsi insieme a lui. “C'mon, let's have some fun together, son”, mi immagino gli abbia detto. Viene davvero da pensare che il diavolo è contento quando ci sente dire che pensiamo che non esista perché vuol dire che sta lavorando nel migliore dei modi. E non è questa forse la sua più grande manifestazione? Mascherarsi da padre? Anche il fronte sentimentale, non benissimo. Cioè, all'inizio sì. Però poi... Lei si chiama Demri Lara Parrott, vuole fare la modella, ama la poesia, l’arte e... i viaggi nelle vene, diciamo così. I due rimangono assieme quasi dieci anni che, voglio dire, nell'industria non è proprio uno scherzo. La storia finisce quando lei finisce, nel 1996, endocardite batterica dicono i medici, una botta dicono le voci.

Il grunge è uno scherzo che ti si ritorce contro, e da qui, caduta libera. Nell'ultimo periodo di abusi, il fisico ne risente ma la voce no. MTV Unplugged di quello stesso anno, senti questa canzone. Sai per chi è? Per Andrew Wood, il prodigio, ancora lui, il numero zero dei numeri zero, ma raccontato da Layne Staley, un uomo che precipita, guarda il paracadute e scrive una canzone sul perché non si apre, anziché disperarsi.

Si dice che la chiave di tutto sia trovare il proprio suono. In qualsiasi campo, non per forza nella musica. È una questione di identità, quelli bravi del marketing direbbero di “differenziazione”. Non chiedetemi perché lo so, altre vite. Però il punto è quello. La ricerca di un modo di esprimersi, delle parole e del volume adatto a tirare fuori tutto, a seconda di come ci si sente. Il grunge è la somma di tante gemme ruvide, come quei diamanti che escono dalle miniere senza ancora splendere. Nessuno uguale all'altro se non per il fatto di venire dallo stesso buio, in attesa di una redenzione. Ognuna di queste personalità alla fine ti fa dire “sì però, che voce”. E se ci pensi è strano, perché qua non siamo parlando di lirica, di musica classica o di svisate o virtuosismi. Quando pensi a quel mondo, pensi sempre prima a quello che lo ha generato e poi a quello che ha generato. Il grunge è la Sindone della rabbia. Si vedono i segni, prima ancora di accorgersi del lino. E quindi il fatto che tutte le volte si finisca per dire “sì però, che voce” è strano perché è una somma di unicità che sono, per definizione, non proprio facili da trovare. Quando Andrew Wood, ancora lui, si consegna alla storia e rende il suo un nome di culto per gli appassionati fa anche un'altra cosa. Cioè spalanca le porte per chi viene dopo. Vedi un certo Eddie Vedder, appena sentito, che all'epoca è un surfista che lavora a una pompa di benzina a San Diego. Jeff Ament e Stone Gossard dei Mother Love Bone, adesso senza Wood, lo scelgono come voce per una nuova band che stanno formando, i Mookie Blaylock. Il nome lo prendono da un giocatore di basket, un playmaker che ha giocato per i New Jersey Nets, gli Atlanta Hawks e Golden State, un vero numero 10. Che però nel basket non vuol dire un cazzo, cioè non è neanche lontanamente uno dei migliori cestisti della storia. È che aveva proprio il numero 10 di casacca e quando la band decide di cambiare nome da Mookie Blaylock al più fortunato Pearl Jam decide comunque di rendergli omaggio chiamando il primo, straordinario, disco come il suo numero di maglia. Ten. Dieci. Sì perché nel grunge c'è questa strana particolarità: il rimpasto. Verrebbe da dire “non si butta via niente” ma qualcuno si offenderebbe per i rimandi. Diciamo che si tratta di una delle scene con il minor numero di contaminazioni esterne (al massimo ispirazioni) ma nonostante questo sempre in evoluzione.

È proprio come le sue voci, un continuo esame di coscienza, una tortura autoinflitta e senza posa per trovare delle risposte anche se nessuno ti ha davvero chiesto niente, è come una perenne agitazione prima che ti scattino la foto. Le radici di questo rimpasto perenne, se volessimo giocarci su, le possiamo trovare addirittura nel diciottesimo secolo. Nelle intuizioni di Antoine Lavoisier, praticamente “il padre della chimica”. Quello che si dice abbia battezzato l'idrogeno e l'ossigeno e che abbia formulato la legge di conservazione della massa. Se vi sembra arabo, tranquilli, siete in ottima compagnia. Ma ci sono delle citazioni che valicano il loro campo e sconfinano quasi nella filosofia. La legge di conservazione della massa non è altro che una delle massime più importanti e famose di tutti i tempi: nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma. Chi l'avrebbe mai detto, uno scienziato francese del '700, il primo grunger. Seattle è un laboratorio in cui si fanno prove su prove, si scrive, si tira fuori insieme la pozione contro il disagio, si alzano gli ampli ad un livello illegale e ci si prova così, a farcela, per quanto possibile.  Scherzi e chimiche a parte, una delle prime testimonianze del suono di Seattle è datata 1986, quando l’etichetta C/Z pubblica una compilation in cui figurano sei band: tra queste i Green River, in cui militavano Stone Gossard e Jeff Ament; i Soundgarden di Chris Cornell; gli Skin Yard di Jack Endino e Matt Cameron; i Melvins di Buzz Osborne; infine, i velenosi Malfunkshun del giovanissimo e carismatico cantante Andrew Wood. Tante band, dunque, tante facce, come una famiglia scassata che continua a cambiare cognome. E tanti progetti che nascono in parallelo, i cosiddetti supergruppi. Tra questi ce n'è uno speciale, perché concentra il dolore condiviso e il sorriso dell'amicizia su cui si appoggia. Vi dico la verità, ho fatto fatica a scrivere questo file. Non è stato un gran periodo questo degli ultimi giorni e questa voce in particolare, quando la senti per un po' tempo di fila, se cerchi un termine di paragone, beh, ha proprio il suono della lacerazione. Dello strappo lento, di una pelle che rifiuta di staccarsi. Ma risentirla è doveroso, perché in questo giardino il bello è un abbraccio tra i rovi, è il risveglio della spina, è la tentazione di abbandonarsi a un mare di insetti in una stagione folle, la quinta, quella che non passa mai.

La Generazione X per definizione di uno scrittore che se vi interessa si chiama Douglas Coupland è quella dei nati tra il 1965 e il 1979, il che vuol dire che è la generazione che i Nirvana hanno chiamato a sé dicendo “vieni, di qua, da questa parte, è qui che appartieni, anche se non lo sai ancora, ma fidati”. Stiamo parlando di un suono che ti porti dentro perché condivide anche quando non vuole farlo. Racconta le tensioni di una società malata di noia e depressione, annichilita dalla tv e dalle medicine. In un certo qual modo siamo tutti un po' grunge anche oggi. Il Seattle Sound produce normalmente due effetti sulle persone, le divide in due categorie: gli imperturbabili e i palombari. I primi sono quelli alla Montale, che spesso il male di vivere ha incontrato e che l'unica risposta è la Divina Indifferenza, il distacco, come una statua nel pomeriggio, una nuvola o un falco alto levato. I secondi invece sono quelli calamitati dal fondo, quelli con il loro marchio speciale di speciale disperazione, innamorati della gravità, anzi dell'abisso. E come tutti gli innamorati, non riescono a immaginare una vita spesa per una causa diversa dal corrergli incontro, anzi dall'immergersi dentro, come palombari, in quel buio. 

Fatto sta che nei primi anni novanta, l'onda lunga di questo suono nuovo e disturbato che divide le masse si spinge più a sud fino in California, a San Diego. Quasi Messico. Dove per un periodo ha vissuto quell'Eddie Vedder di cui sopra. Bene, qui ci abita anche un altro ragazzo particolare, quelli bravi direbbero un antidivo. Noi diremmo un teen spirit. Da ragazzo, secondo me era bellissimo. Una faccia che era una via di mezzo tra Luke Perry e Clint Eastwood, i cui connotati finiscono per prendere la forma del suo stile di vita poco salutare, quando arriva il successo. Nel senso che arrivano gli eccessi di ogni tipo. La ricorrente favola, anzi il sabba, del sesso, droga e rock'n'roll. E alcol, tanto. Giusto per dare l'idea, era uno che mescolava antidepressivi e Viagra. Sentitevi liberi di scherzare sul fatto che sul palco fosse un tipo, diciamo così, cazzuto. Ecco, appunto. Quando Cobain salta (che è un po' la misura di questo decennio, il cosa stavamo facendo quando è successo), gli Stone Temple Pilots hanno già prodotto due dischi, si trovano nel gotha del rock, hanno a casa un bel Grammy d'arredamento e Scott Weiland è clinicamente bipolare, il bello e dannato alla ricerca di una strada. Pochi progetti solisti, tante collaborazioni, tante trasformazioni direbbe Lavoisier, una su tutte quella con Slash e Duff McKagan nei Velvet Revolver che avrebbe dovuto sancire definitivamente la luminosità della sua stella ma niente, le stelle le vede solo quando esagera. Il fatto che gestire un personaggio come lui fosse tutt'altro che agile lo conferma come è finita con gli Stone Temple Pilots: è una di quelle volte in cui qualcuno viene cacciato dalla cosa che lui stesso ha fondato. Tipo Steve Jobs con la Apple, presente? Non proprio il lieto fine delle favole, insomma. Aggiungi anche che, a quanto pare, non se lo sono manco detto in faccia, ma lui ha scoperto di essere stato licenziato leggendolo sui giornali. Come al solito, a volercelo vedere, il germe della distruzione si trova in ogni cosa. Quando Scott Weiland viene licenziato nel 2013 a prendere il suo posto al microfono è Chester Bennington e con il senno di poi, più che un passaggio di testimone sembra proprio una staffetta verso l'inferno. Chester suona con i Pilots fino a novembre 2015, quando lascia la band per i troppi impegni, ci sono i Linkin Park, c'è la sua famiglia e c'è, vabbè, un sacco di altra roba. Il posto è di nuovo libero ma Weiland adesso suona con i Wildabouts e a dicembre, quindi un mese dopo, in un tour bus in Minnesota si stende per l'ultima volta, in tutti i sensi. La sua è una delle voci dei ragazzi con la X, e non a caso la X è in genere l'incognita. È il problema irrisolto di trovarsi un nome di riferimento, che sia anche il nostro, va bene, basta che venga fuori. Una voce crocifissa dallo stesso talento che l'ha resa memorabile, come un bacio al veleno, lo provi una volta soltanto.

In quegli anni il grunge ha un tocco stregato, come essere ad una seduta spiritica. Qualcuno sente un tocco, uno sfioro, senza distinzione di origine o di ceto sociale. Vale per la nostra Generazione X e per quelle di tutto il mondo ma soprattutto negli Stati Uniti dove sono tutti potenziali topi di fronte al Pifferaio Magico in un paese socialmente bucato. Shannon Hoon. Faccia da bravo ragazzo, viso dolce, bel sorriso, capelli lunghi e pensa un po', oh, puliti. Ha la fortuna di stringere amicizia con Axl Rose e dare una scossa alla popolarità della sua band, i Blind Melon. Che fanno sì grunge, ma più simile ai Red Hot che ai Soundgarden. Prende la via della fama dalla porta principale ma c'è qualcosa che non va, è come una lieve dissonanza tra quello che canta e la vita d'oro che gli è capitata. E così gioca a fare la rockstar, un ruolo che probabilmente non è del tutto il suo. Nel 1994 si rifà Woodstock. 25 anni dopo Hendrix, Santana e compagnia fischiando. Ritorna il padre di tutti i festival, che quell'anno viene ribattezzato Mudstock, perché viene giù che Dio la manda e l'area diventa una sorta di palude con la gente che inizia a pogare e a lanciare placche di fango sul palco.  All'allegra manifestazione partecipano anche i Blind Melon e Shannon Hoon si presenta indossando un vestito bianco da donna strafatto di allucinogeni, ottenendo un immediato effetto Janis Joplin, nel bene e nel male. Beh diciamo che se l'intento del festival era festeggiare la storia di Woodstock, qualcuno a omaggiare le grandi voci doveva pur pensarci. E vi sembrerà assurdo, ma la voce assomiglia davvero a quella della Perla. “All I can say is that my life is pretty plain, I like watching the puddles gather rain.” Tradotto: “Tutto quello che posso dire, è che la mia vita è piuttosto tranquilla. Mi piace giusto guardare le pozzanghere che si riempiono di pioggia.” Lo dice in No Rain, la loro canzone più famosa. Viene da pensare alle volte in cui tutti abbiamo voluto una vita tranquilla ma non abbiamo potuto fare a meno di sacrificare quella tranquillità per inseguire una gonna, un fantasma, un profumo, un lavoro migliore, un occhio alle onde o una goccia di splendore. C'è un'altra canzone che Shannon Hoon cantava con i suoi Blind Melon, che lo spiega bene. Questa. “They'll all look at me and say, and they'll say, “Hey look at him”, I'll never live that way, And that's okay, They're just afraid to change.” Tradotto. “Mi guarderanno e diranno, “non lo farà mai”, e va bene così, sono loro ad aver paura di cambiare.”

Una band che decide di chiamarsi Screaming Trees, Alberi Urlanti, non so a voi, ma a me incute una mezza misura di rispetto e timore. Se non altro perché gli urli dei salici ce li siamo sempre immaginati acuti, acutissimi, come un lamento di donna, e invece Mark Lanegan ha la corteccia al posto delle corde vocali, e ha lasciato ai grizzly del whisky e del fumo il compito di farcisi le unghie sopra e graffiare, abradere, rendere ruvide persino le canzoni d'amore. Siamo arrivati alla fine del nostro viaggio e, come sempre si fa prima di salutare una città, si butta un ultimo sguardo al suo punto d'interesse. Chissà perché l'hanno chiamato “Ago Spaziale”, quello Space Needle. Forse l'hanno tirato su apposta per farci i dispetti e bucarci i palloncini, o per mettere gli orecchini al cielo di Seattle. È ora di tornare a casa. Di tornare a quando abbiamo pensato anche noi, mettendo su il nostro ghigno migliore, che sarebbe meglio bruciare in fretta che spegnersi lentamente. Indugiare nel narcisismo dei cantanti è un passaggio obbligato, ti fa capire che tipo sei, se ti guardi allo specchio e mentre ti atteggi da star, ti ci vedi pure.  Poi ti volti e se sei abbastanza bravo riesci anche a ricordare che i cantanti non tornano a casa davvero, non appendono il cappello e lasciano fuori dalla porta il lavoro, le scadenze o si buttano sul divano a guardare un film. Se accetti anche quello, oltre ai riflettori immaginari, come un abbraccio coi rovi come si diceva prima, allora avrai capito ancora di più. Il dubbio se bruciare o sfumare piano è venuto a tutte le persone che hanno il coraggio di farsi delle domande più grandi di loro. Su quale senso ci sia, sul perché del pianto, su “chi l'ha mai chiesto, alla fine, tutto questo”. Forse il grunge vi ha dato delle risposte, forse ha scaturito solo altre domande. Se non altro vi ha ricordato che si può essere molto arrabbiati anche quando si costruisce, non solo quando si demolisce. Che il sangue e il tempo sono tutto ciò che abbiamo e che bruciare o spegnersi non importa davvero, importa sopravvivere nei ricordi di chi ci ha voluto bene. Questo Radio Freccia File è dedicato a tutti i Teen Spirits là fuori, di ogni età, che ricordano cosa vuol dire quando si stava sereni da piccoli e quando vostro padre vi portava la manina alla bocca e vi faceva mandare un bacio a qualcuno da salutare. Fatelo anche voi, oggi, verso l'alto, verso i vostri santi o meglio le voci del vostro peccato, “say hello to heaven”.

Radiofreccia File: Teen Spirits - Tracklist

  1. Temple Of The Dog - Hunger Strike
  2. Mother Love Bone - Man Of Golden Words
  3. Alice In Chains - Would? (unplugged)
  4. Eddie Vedder - Even Flow (isolated vocals)
  5. Mad Season - Wake Up
  6. Stone Temple Pilots - Plush
  7. Blind Melon - Change
  8. Screaming Trees - Nearly Lost You
  9. Temple Of The Dog - Say Hello 2 Heaven

Radiofreccia File: Teen Spirits

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