C’è un paradosso che attraversa la storia del rock, una contraddizione che si ripete quasi come un’ingiustizia tramandata: Ringo Starr è stato per decenni il batterista più famoso del mondo, ma anche uno dei più incompresi. Mentre i critici si accapigliavano sulle doti di Lennon e McCartney, e George Harrison costruiva in silenzio il suo culto, anche da solista, Ringo restava sullo sfondo, con il suo sorriso pacifico e quel modo tutto suo di picchiare i tamburi, senza mai esagerare, ma sempre lasciando il segno.
Eppure, basta poco per capire che Richard Starkey, in arte Ringo Starr, è stato un batterista rivoluzionario, un innovatore stilistico prima ancora che tecnico, un artista che ha riscritto le regole del suonare la batteria mettendosi al servizio della canzone.

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Il mancino che suonava come un destro
Una delle chiavi per comprendere il drumming di Ringo sta nella sua anomalia fisica e musicale: Ringo è mancino, ma ha sempre suonato su un kit per destri.
Questo ha influenzato profondamente il suo stile: gli ha dato una naturale inclinazione a partire con la mano sinistra, a usare i piatti in modo non convenzionale, e a costruire fill e groove che non seguivano la simmetria dei colleghi destrorsi.
Il suo shuffle è diventato leggendario e nei momenti in cui si prende il centro del palco (P.S. ricordiamoci che, in un mondo di batteristi nelle retrovie, Ringo fu tra i primi a svettare su una pedana), lo fa con gusto, con classe, con inventiva, mai con l’arroganza del virtuosismo.
Ringo non si mette mai sopra la canzone, la accompagna, la sostiene, la rende riconoscibile.