Tears For Fears: tre album per capire l’evoluzione sonora più ambiziosa degli anni '80
Dal synth-pop emotivo di The Hurting alla magnificenza produttiva di The Seeds of Love: tre album per raccontare l’evoluzione dei Tears For Fears.
Formatisi nel 1981 a Bath, Inghilterra, i Tears For Fears sono uno dei progetti più ambiziosi e sofisticati nati in seno alla new wave britannica. Il duo fondatore — Roland Orzabal e Curt Smith — prende ispirazione da fonti colte e insospettabili: psicologia junghiana, progressive rock, Beatles, ma anche dal minimalismo emotivo del post-punk e dalla nuova elettronica degli anni Ottanta.
Nel bel mezzo di una scena musicale che abbracciava sintetizzatori e drum machine, i Tears For Fears riescono nell’impresa di fondere introspezione lirica, ambizione sonora e spirito pop, diventando un ponte tra rock, l’avanguardia della new wave e la classicità della grande canzone britannica.

Nel giorno del compleanno di Curt Smith, ripercorriamo la loro traiettoria con tre dischi fondamentali, che rappresentano altrettante tappe evolutive: THE HURTING, SONGS FROM THE BIG CHAIR e THE SEEDS OF LOVE
THE HURTING (1983)
Album d’esordio e manifesto di una poetica malinconica ma potente, THE HURTING è uno dei dischi più rappresentativi del primo synth-pop britannico. Tutto ruota attorno alla fragilità interiore, alla sofferenza psichica e all’eco della teoria delle “urla primordiali” di Arthur Janov. I suoni sono scarni, elettronici, tesi: tastiere fredde, linee vocali struggenti, ritmi programmati che sottolineano l’inquietudine dei testi. Ma è proprio l’impegno nel songwriting, la presenza di contenuti autentici e profondamente vissuti nei testi, a fare la differenza: non è l’esercizio di stile di due giovani musicisti brillanti che esplorano il nuovo mondo sonoro del synth-pop, ma un vero e proprio album, concepito con urgenza e consapevolezza. È questo che rende i Tears For Fears una vera band, e non solo un progetto tra tanti della new wave. "Mad World", "Pale Shelter", "Change" sono canzoni immediate e profonde, già capaci di mostrare un’identità ben definita.
SONGS FROM THE BIG CHAIR (1985)
Due anni dopo, i Tears For Fears sorprendono tutti: SONGS FROM THE BIG CHAIRS è un capolavoro di equilibrio tra forma e contenuto, tra canzone pop e raffinatezza sonora. Il minimalismo emotivo degli esordi lascia spazio a un pop sontuoso, stratificato, che non rinuncia mai alla profondità tematica. La chiave dell’evoluzione è l’attitudine rock, che porta a costruire un impianto sonoro in cui basso, batteria e chitarre elettriche — strumenti portanti del genere — regnano, armonizzandosi alla perfezione con i sintetizzatori, la voce e l’estetica dominante di quel periodo. I synth non solo si amalgamano con eleganza agli strumenti analogici, ma esplorano sonorità ambient, contribuendo a una spazialità suggestiva e malinconica che renderà unico l’atmosfera di questo disco e influenzerà profondamente il pop-rock degli anni ’80. "Shout", "Everybody Wants To Rule The World" e — soprattutto — "The Working Hour" sono idiventati dei classici, ma anche esempi di produzione d’autore, perfetti nel fondere pop, rock, soul e armonie jazz con un’anima elettronica calda e visionaria. Sono brani che possono essere letti anche come perle di art rock: quel tipo di approccio compositivo che, da Peter Gabriel a David Bowie, ha permesso ad artisti ispirati di ottenere un successo popolare enorme senza rinunciare a scritture ardite, arrangiamenti coraggiosi e contaminazioni stilistiche che sfidavano i cliché del genere.
THE SEEDS OF LOVE (1989)
Una vera e propria ossessione sonora. THE SEEDS OF LOVE nasce da anni di lavoro, sessioni estenuanti, musicisti stellari e un’ambizione dichiarata: creare l’album perfetto. Orzabal e Smith guardano ai Beatles — esplicitamente omaggiati nel brano omonimo — ma si inseriscono nella stessa scia di grandi produzioni che hanno segnato gli anni ’80: THRILLER di Michael Jackson, SO di Peter Gabriel, THE JOSHUA TREE degli U2 e tanti dischi dei Toto. Tutti accomunati dalla stessa urgenza: unire qualità compositiva, arrangiamenti impeccabili ed eccellenza sonora in un’esperienza sonora e musicale totale. Complice l’entusiasmo per le nuove tecnologie di registrazione, questo disco affianca alla scrittura ispirata e all’esecuzione di altissimo livello una ricerca sonora maniacale: ogni suono, ogni ambiente, ogni sfumatura viene scolpita con precisione chirurgica per generare un ascolto immersivo, coinvolgente e tridimensionale. In "Woman in Chains", brano chiave del disco, l’atmosfera intensa e malinconica si regge sulla voce profonda di Oleta Adams, sostenuta inizialmente dalla batteria elegante e discreta di Manu Katché, che lascia poi spazio, al minuto 3:32, all’ingresso fragoroso e iconico di Phil Collins. Il suo “big drum sound” — già reso celebre in "In the Air Tonight" — esplode nella seconda parte del brano con fill incisivi, piatti carichi di tensione e un suono riverberato che amplifica la drammaticità del crescendo emotivo. La produzione firmata insieme a Dave Bascombe valorizza pienamente questa alternanza, rendendo la batteria una vera protagonista nella narrazione sonora del pezzo. Jazz, soul, psichedelia, progressive e pop orchestrale si intrecciano lungo tutta la tracklist, dando vita a una delle produzioni più ambiziose e raffinate del decennio.