Metallaro redento, Tom Morello ha messo i suoi super poteri tecnici al servizio di un’idea: la chitarra come un giradischi, tra rap, crossover e Joe Strummer.
Nato il 30 maggio 1964, Tom Morello non è solo uno dei chitarristi più riconoscibili del rock moderno: è la dimostrazione vivente che tecnica e immaginazione, virtuosismo, passionalità e pensiero critico possono coesistere in una stessa persona. Ma soprattutto, Morello – tanto con i Rage Against The Machine quanto con gli Audioslave – ha fatto quello che ogni musicista dovrebbe fare: mettere il proprio talento al servizio di una grande band che scriva e suoni grande musica rock, per trasmettere un’idea, un messaggio, una visione.
Cresciuto negli anni Ottanta, Tom Morello è passato anche lui dalla palestra degli shredder: giornate intere trascorse con la chitarra in mano a imitare le magie di Eddie Van Halen, Steve Vai, Randy Rhoads, o a studiare le VHS didattiche di Paul Gilbert e Michael Angelo, in voga in quegli anni dell’era pre-internet. Ma a differenza di tanti altri, Morello non si è perso in quel labirinto tecnico. Ne è uscito con una domanda più grande: “Come faccio a suonare qualcosa che sia solo mio?”. E la risposta non è arrivata cercando di essere il chitarrista più veloce, ma l’artista più autentico. Uno che aveva Joe Strummer nel cuore e l’idea rivoluzionaria che il suono potesse essere un atto politico, oltre che musicale.
Ragionare da artista
Il momento in cui Tom Morello decide di cambiare pelle arriva in maniera quasi banale, durante un concerto qualsiasi in un college, un mercoledì pomeriggio, in apertura a due cover band. Un’esibizione buttata lì, di quelle che si fanno per abitudine più che per convinzione. Al soundcheck, Morello si accorge che entrambi i chitarristi delle altre band sono shredder clamorosi, perfetti cloni di Yngwie Malmsteen. E allora si ferma a riflettere: «Se questo concerto già ha due di quei criceti da ruota, che bisogno c’è di un terzo?». È un’epifania. Capisce che continuare a inseguire quel modello – il chitarrista acrobatico, neoclassico e super tecnico – non è solo inutile, ma anche anacronistico. Quel modo di suonare, che aveva infiammato gli anni Ottanta, alla fine del decennio iniziava già a perdere smalto. L’euforia per il virtuosismo stava appassendo, e ostinarsi su quella strada significava condannarsi a restare nella nicchia: tra nerd, musicisti, addetti ai lavori. Un circuito chiuso, autoreferenziale, che aveva sempre meno a che fare con il pubblico vero. In quel momento Morello smette di inseguire la perfezione tecnica e inizia a pensare in modo diverso. Invece di voler diventare il chitarrista più veloce, comincia a ragionare come un artista. Si impone una nuova missione: smontare la chitarra e ripensarla da capo. La guarda per quello che è: un pezzo di legno, fili e circuiti. E capisce che qualsiasi rumore possa tirare fuori da quello strumento può diventare il cuore di un brano o di un assolo. Da lì in poi, le sue otto ore al giorno di studio non servono più per perfezionare scale o sweep picking, ma per esplorare gli “errori”, i glitch, gli effetti, il potenziale creativo del suono grezzo.
