20 febbraio 2019

Un bel giro di parole

Un magico “viaggio verbale” che si compie ogni giorno rimanendo fermi, premendo solo un pulsante e infine...chiudendo un barattolo. Per informare, intrattenere caricare e rincuorare.

Dita che premono pulsanti su una tastiera traducono in lettere i pensieri, le intuizioni e le idee. Occhi che scorrono attentamente testi scritti (quotidiani, riviste e siti), che fungeranno da spunto da lì a breve. Intorno a noi Notizie e Informazioni, ma anche Battute, Espressioni, Modi di Dire, talvolta Parolacce. In sintesi: Parole. Sempre e solo Parole. Da diffondere, rispettare, amare, proteggere e custodire, far scivolare o soppesare, urlare o sussurrare. Il compito che siamo chiamati a svolgere attraverso un procedimento che è identico nel tempo: inspirare, schiacciare un bottone e parlare. Sarebbe un compito inutile (oltre che impossibile) quantificare il numero di parole che ho pronunciato in ore, giorni, settimane, mesi ed anni. Questo non vuole però essere un banale esercizio “di conto”, ma piuttosto un gioco immaginario che serva a tracciare il percorso, l’itinerario di quello sterminato flusso di lettere diffuse da un muto strumento posto davanti a me. Insomma mi chiedo: cosa succede dopo che abbiamo parlato? Dove vanno a finire le parole? 

Il tono è quello cadenzato e istituzionale che la mattina fuoriesce gracchiante dalla radiosveglia e che aiuta a farci fare l’ultimo sforzo per sollevare le lenzuola. Guidando il nostro stanco cammino lungo il corridoio, la voce prosegue la lettura delle notizie che, tra un servizio e una rubrica, scandisce prima il ticchettio del cucchiaino dentro la tazzina, e poi l’insaponatura sotto la doccia. L’aroma del caffè e il profumo di deodorante sono sospinti dai saluti squillanti dei “morning show” che aprono le porte delle camerette, sollevando disegni raffiguranti mamma e papà e andando a solleticare le guance soffici di chi proprio non ha voglia di alzarsi. Le risate provocate da un sms o un messaggio vocale guideranno la scelta dei vestiti da indossare e da consigliare, delle scarpe da calzare e della pettinatura da sfoggiare.  

Lo speciale “percorso verbale” sembra interrompersi tra le mura domestiche, ma è sufficiente premere un pulsante sul cruscotto o un tocco sullo schermo del telefono per riprendere in strada. Dentro l’abitacolo mentre ci guida verso l’itinerario più veloce per raggiungere la scuola ed il lavoro e negli auricolari infilati sotto il casco, che sobbalza al ritmo di un ciottolo o un sanpietrino, tra una canzone e un disannuncio. Oppure ci tiene svegli col ricordo di quanto è successo lo stesso giorno di un po’ di tempo fa, quando eravamo comunque seduti dentro quel mezzo pubblico attendendo la nostra fermata. Quanti percorsi, ognuno diverso dall’altro, che compiono ogni mattina le “nostre” parole generando risate, urla, pianti e critiche che in mezzo al traffico si mischiano sotto il cielo delle prime luci dell’alba.

Sotto i riflettori o all’aperto. In piedi, seduti o sdraiati sul tappetino. A corpo libero o con attrezzi e manubri. Pronunciate o “ritmate”, le parole pomeridiane si insinuano sotto le canottiere madide di sudore, attenuando la fatica di un esercizio ripetuto all’infinito o che facciamo per la prima volta. Sospingono l’allungo, accompagnano il defaticamento, danno il ritmo al passo e alla pedalata, si mescolano all’adrenalina provocata dall’obiettivo finalmente raggiunto. I sondaggi a cui stentiamo a credere o la ricerca delle università sulle abitudini più strampalate saranno immediatamente udibili attraverso le cuffie, o risuoneranno forti dalle casse poste sul soffitto. Magari le avremo ascoltate per davvero, o forse i nostri muscoli ne saranno stati solamente sfiorati. Poco importa: in entrambi i casi, alla fine del nostro allenamento, quelle parole avranno comunque contribuito a farci stare meglio. 

È sera quando i rumori non hanno più la forza di sovrastare il silenzio, quando non c’è più spazio per le frasi di convenienza, i rituali imposti, il conforto “di routine”, la messa in scena verbale dell’affetto. È sera quando sdraiati su un letto d’ospedale, seduti forzatamente su una sedia a rotelle o su un divano non rimane altra compagnia che quella delle parole. Le parole che fanno tornare indietro nel tempo a quando la vita era come quella degli altri, e che rendono finalmente protagonisti chi invece si sente sempre e comunque dimenticato. Sono poche, semplici, ma vengono attese tutto il giorno dalle “anime malconce” ed hanno il potere di condurle verso un posto immaginario che nemmeno la fantasia più acuta riuscirebbe a figurare. Un mondo dove si cammina senza stampelle, dove si respira senza macchinari, dove si parla e si ascolta. Una fantasia retta solo dalle parole. 

È notte quando una macchina senza targa sfreccia lungo una strada senza cartelli. È guidata da una figura senza nome, che tiene sul sedile passeggero un barattolo. Ha viaggiato tutto il giorno e sul suo viso porta i segni della stanchezza dei tanti chilometri percorsi. Lo fa da anni e più di una volta, tra uno svincolo e un rettilineo, una statale e un’autostrada, si è domandata come avrebbe potuto coprire tutta quella distanza senza l’aiuto delle parole. Chi l’ha incrociata lungo il cammino, racconta di averla vista fermarsi in un’area di servizio e aver fatto rifornimento solo col contenuto di quel barattolo, nello sbigottimento generale. Una volta tornata in auto, ha riacceso la radio perché potesse tornare a riempirsi prima della consegna.

Spento il microfono, indosso il cappotto e mi dirigo verso l’uscita. Prima di salire in macchina me la ritrovo davanti avvolta in una sciarpa che la rende indistinguibile. Per un istante temo il peggio quando, armeggiando in silenzio nelle tasche del suo giubbotto, estrae il barattolo per porgermelo. Un poco titubante lo afferro dal suo braccio rimasto teso verso di me. Lo sollevo per osservarlo in controluce sotto un lampione, curioso di scoprirne il contenuto. “Ehi, ma non c’è niente dentro!” – esclamo voltandomi, ma la misteriosa figura è sparita e con lei la macchina senza targa parcheggiata dietro la mia. Mentre faccio ritorno a casa, premo il tasto ON dell’autoradio che però non si accende; eppure magicamente le parole fuoriescono lo stesso. Pianto di colpo una frenata e nel silenzio della strada capisco che quella che proviene dal barattolo apparentemente vuoto è proprio la mia voce. “Le mie parole…”, vorrei esclamare con stupore, ma nonostante provi e riprovi non riesco ad emettere suoni. Proprio come se le uniche parole che mi fosse concesso pronunciare fossero quelle davanti al microfono. E allora, sorridendo in silenzio, mi limito a riascoltarmi nell’attesa di dare il via il giorno dopo, e quello successivo ancora, ad un altro (bel) giro di parole.


Un bel giro di parole

Extreme - More Than Words

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