24 dicembre 2019

VOGLIA DI NATALE

Quattro racconti, o forse uno solo. Il mio modo per dire a tutti voi: “Tanti Auguri”! Buone feste Popolo Sfrecciato.

Comunque per tre

Lo squillo del telefono si adagiò sulla tavola apparecchiata in salotto. Aggirò i bicchieri del vino e dello spumante, le posate e i sottopiatti d’argento, fino a raggiungere i fornelli della cucina. Gli aromi delle pietanze, che cuocevano senza sosta dalla mattina, parvero fare spazio al trillo che, dopo il lungo percorso, giunse finalmente alle sue orecchie, scompigliando un poco l’acconciatura ravvivata per l’occasione. Prima di abbandonare tutto per andare a rispondere, controllò che i fuochi sotto il soffritto e la carne fossero bassi, ma dimenticò il forno acceso. Mancava solo mezz’ora alla cena e, malgrado gli sforzi, non tutto si presentava perfetto come nella sua testa si era figurata. Attraversando a fatica il salotto, diede una seconda sistemata ai tovaglioli rossi e si accertò nuovamente che i pacchetti regalo fossero ben nascosti sotto i tre piatti di porcellana, come voleva la tradizione della loro famiglia. In corridoio intanto il telefono continuava a squillare. Tentò di accelerare il passo, ma i dolori alle gambe che la tormentavano da un anno a questa parte, glielo impedirono. Nemmeno in questa giornata pareva esserci tregua. Visto l’aggravarsi delle condizioni, oltre ad intensificare la normale terapia, il medico le aveva imposto riposo assoluto per tutta la settimana. “Ma Dottore, anche per domani sera?”, aveva domandato lei implorante dal suo letto. Non se l’era sentito di chiederle quali sforzi avesse mai da compiere una signora che viveva ormai da sola, e che riceveva l’assistenza quotidiana di una badante. “Pronto Davide”, rispose cercando di dissimulare lo sforzo e sistemandosi al contempo la messa in piega. “Mamma, ma dov’eri finita?”, chiese con preoccupazione l’uomo. La sua voce sembrò giungere però da molto più vicino, rispetto a come si era abituata. Come se soltanto per quella serata, riuscisse magicamente ad essere al suo fianco. “Tesoro, ero a letto e stavo riposando. Ma dove ti trovi? – rispose con un fare ansioso, ma molto più vicino alla bugia che alla preoccupazione. E poi aggiunse la tipica domanda da mamma: “Ti stai per mettere a tavola?”. “Ancora non hai imparato il fuso orario di New York, vero?” – rispose lui a metà tra lo scanzonato e il pensieroso. Dopo svariati colloqui e innumerevoli viaggi intercontinentali, era riuscito a conquistare il lavoro che desiderava, trasferendosi nella città che lo affascinava fin da bambino. Ma oltre che per assicurarsi delle condizioni di sua madre, quella telefonata l’aveva fatta proprio per cominciare a riassaporare un’atmosfera unica, che i grattacieli e i vialoni illuminati a giorno non avrebbero potuto sostituire. A seguito della prematura scomparsa del padre, benché il contratto di lavoro non fosse ancora definito, aveva deciso comunque di partire, abbandonando però troppo in fretta una realtà che non avrebbe più vissuto. E quando realizzò che non poteva più tornare sui suoi passi, nemmeno per cercare di combattere la malattia della madre insorta poco tempo dopo, si impose comunque di non lasciarla sola. A cominciare dalla serata, fatta di luci intermittenti e colorata di rosso e di verde, da trascorrere “vestiti bene” - come piaceva a lei – e con la Statua della Libertà in miniatura vicino al bicchiere. Anche se ora ce l’aveva a portata di sguardo tutti i giorni, l’avrebbe voluta tenere ancora in mano. Proprio come stava facendo ora al telefono, e come avrebbe continuato a fare, a qualunque costo, nei mesi a seguire. “Auguri Mamma…”, sussurrò con un po’ di emozione, aggiungendo un “Ci vediamo presto”. Tornando verso il salone, guardò per l’ultima volta la tavola prima di dirigersi verso la cucina. L’essere rimasta troppo in piedi la costrinse a fermarsi e ad appoggiarsi alla porta. Chiuse allora gli occhi ed immaginò loro tre seduti a tavola: lui col completo marrone appena lavato, lei con l’acconciatura rifatta per l’occasione e Davide con la statuetta in mano. Al quadretto mancava però ancora l’ultimo elemento, quello che metteva tutti di buonumore. Accendendo la televisione, il conduttore annunciò che a breve si sarebbero collegati con un noto locale della città per trasmettere il concerto. Proprio in quell’istante intravide il fumo nero provenire dal forno. “No!”, esclamò girandosi di scatto. I suoi uomini non avrebbero sopportato il cibo bruciato proprio la notte di Natale. 

Dalla tavola al palco

 “Dieci minuti sul palco!”. Il grido riecheggiò nel corridoio dei camerini, mentre con la matita dava l’ultimo ritocco agli occhi. Al suo arrivo nel pomeriggio, lo staff del locale aveva proposto l’aiuto di una truccatrice, ma lei l’aveva prontamente rifiutato. Si truccava da sola. Aveva imparato in un tempo non troppo lontano, quando il luogo silenzioso dove ora si trovava le era precluso: o perché troppo giovane o perché ancora semplice corista. E per una “seconda voce” il camerino poteva esistere solo nei sogni. Ma ciò che avrebbe vissuto da lì a poco, non era affatto un sogno, ed il cartello con scritto il suo nome appeso fuori dalla porta, stava lì a ricordarglielo. E poi le bevande, i fiori freschi sul tavolo, l’abito di scena disegnato per lei e la locandina dello spettacolo incastrata all’angolo dello specchio in evidenza. In realtà lei non aveva alcun bisogno di ricordare, avrebbe piuttosto voluto dimenticare il lungo passato che aveva preceduto le paillettes e gli annunci pubblicitari. Un macigno che il fondotinta steso sul viso ancora corrucciato non avrebbe potuto cancellare, e che solo i pochissimi che avevano condiviso il suo percorso a ostacoli avrebbero saputo scorgere, tra le rughe della fronte e quelle ai lati degli occhi. Lì in mezzo ci leggeva bene le tante notti in bianco tra un palco e un altro, le paghe misere – quando le riceveva – le proposte oscene e i troppi NO ricevuti, di cui aveva perso il conto. Poi il freddo pungente provato nel cambio di abiti all’aperto. E non bastavano certo il solito bicchiere di whisky dietro alla batteria o gli applausi del pubblico a scaldare le sue gambe scoperte. Già le gambe scoperte. Le aveva così tanti anni prima, quando saliva sulla sedia a capotavola, proprio in quel giorno e pressappoco a quell’ora. “Dieci minuti e a tavola!”, urlava la mamma dalla cucina: l’inconfondibile segnale che toccava a lei. La restante parte della famiglia attendeva, sempre nelle stesse posizioni: i due fratelli sul lato lungo, il papà a capotavola e di fronte la sedia vuota col cuscino. Intorno il calore della cena attesa tutto l’anno; una delle poche in cui ci si poteva permettere più di una portata. “Che Natale è senza la canzone di Giovannina nostra?”, intonava suo padre prima di aiutarla a salire in piedi sulla sedia traballante. Nessun altro palco, nemmeno quello su cui stava per salire, poteva eguagliare la tavola della cucina di casa. Quanto tempo era passato? Quante altre volte avrebbe dovuto mentirgli al telefono, dicendo di essere da un’altra parte, che “sì, aveva mangiato” e che “i soldi arrivavano lunedì”? Ad un certo punto le bugie erano diventate talmente tante, da ritenere che la fuga fosse la scelta migliore. Da loro quattro, dal telefono che continuava a squillare a vuoto e persino dal proprio nome, cambiato non certo per ragioni artistiche. Una lunga fuga durata fino a Natale, giorno che non ricordava nemmeno più come si festeggiava. Prima di indossare l’abito, si diede un’ultima occhiata allo specchio. La sua vita era stata un trucco, molto simile a quello che mascherava ora il suo volto. Avrebbe rinunciato a tutto il compenso, pur di non farsi riprendere dalle telecamere che avrebbero mandato in diretta nazionale il suo concerto. All’improvviso il telefono squillò e sullo schermo comparve un numero sconosciuto. Esitò per alcuni istanti, indecisa se rispondere. Quella che poteva essere forse l’ultima occasione per interrompere la fuga, venne spazzata via dal secondo richiamo. “In scena!”. Chiuse con rabbia la porta alle sue spalle, mentre all’interno del camerino il telefono continuava a squillare. Preceduta dall’assistente di scena, continuava a saltellare dietro le quinte con il soprabito addosso per combattere il freddo, che sembrava non abbandonarla più. Il silenzio che seguì l’applauso chiamato dal presentatore venne rotto dalla voce imbarazzata della maschera di sala, che proveniva dalla prima fila. “Vi prego signori, non c’è posto. Il locale è pieno”. “E che fa? Noi ci mettiamo sotto il palco”, risposero in coro due anziane voci affaticate. “Davvero non è possibile, c’è un problema di sicurezza” insisté l’addetto. “Non si preoccupi, i nostri genitori non daranno alcun fastidio. Siamo venuti da lontano”. Malgrado la restante parte del pubblico avesse già cominciato a rumoreggiare per il ritardo, sull’ultima frase riconobbe distintamente la voce di suo fratello e non riuscì a trattenersi. “Datemi un microfono!” chiese ad alta voce. Poi fece cenno al suo fonico che alzò il cursore. La sua voce riempì le casse in sala. “Buonasera Signore e Signori, so che mi state aspettando, tra poco lo spettacolo avrà inizio…In questa serata così speciale vi ringrazio di essere presenti. Se siete seduti qua, significa che non passerete il Natale con le vostre famiglie”. Poi fece una pausa per non farsi vincere dall’emozione. “Fino a pochi istanti fa anch’io credevo di essere, come voi, lontano dalla mia famiglia. E invece, senza che lo sapessi, anche loro stasera sono fra noi. Vi va se, dopo tanti anni, trascorriamo la notte di Natale tutti insieme?”. Dalla platea si levò un applauso forte che la sua voce, tornata quella di sempre, riuscì a sovrastare “Stasera non sarò Janis… Da oggi chiamatemi semplicemente Giovannina, tanti auguri a tutti”. Il sipario ora poteva essere levato.

All’improvviso… il nome

I colleghi erano appena scesi per portare il ferito in barella al medico di Pronto Soccorso. Comunicando poco prima via radio con l’ospedale, il soccorritore che gli sedeva affianco aveva parlato di “Codice Giallo”, il livello più grave prima del “Rosso”. Il colore che gli mancava di più in quella sera. Dopo aver diligentemente parcheggiato il mezzo su un lato del piazzale, si guardò intorno. Davanti a sé scarponi e zoccoli che correvano, lenzuoli bianchi che sfrecciavano su rotelle e porte a vetri automatiche che si aprivano e si chiudevano. Si aprivano e si chiudevano. E tutto intorno un turbinio di luci blu che continuavano a roteare, illuminando anche il suo volto malinconico. Non doveva essere lì quella sera. Aveva programmato tutta la seconda parte dell’anno per rimanere libero: ferie, permessi e recuperi erano stati incastrati con l’unico scopo di potersene stare a casa con sua moglie incinta di sei mesi. Lo aveva stabilito proprio in quel giorno di settembre in cui insieme, dopo essere usciti proprio dall’ospedale che aveva di fronte, avevano saputo che attendevano una bambina. L’indomani la “macchina organizzativa” si era messa in moto: dall’arredamento della futura cameretta, all’acquisto di vestitini, carrozzine e seggioloni. Rimaneva fuori solo un aspetto, certamente uno dei più importanti: il nome. Non che non ci avessero pensato, ma, tra i loro preferiti, nessuno aveva avuto la meglio. Prima che gli comunicassero i nuovi turni, aveva pensato che magari proprio in quella serata speciale, tra una fetta di panettone e una frutta secca da sgranocchiare, sarebbero giunti ad una decisione una volta per tutte. L’improvvisa malattia dell’autista in servizio aveva mandato all’aria la loro serata insieme, che prevedeva: addobbi rossi, maglioni con le renne e buona musica di sottofondo. Ma la notte di Natale che scendeva su quel piazzale pieno e allo stesso tempo desolatamente vuoto, si presentava purtroppo come tante altre che aveva già vissuto. Niente infatti rimandava alla festività, ad eccezione del misero alberello posizionato all’ingresso dietro la porta a vetri, che da lontano vedeva apparire e scomparire. Per esorcizzare l’amarezza, in quel momento di pausa, decise di telefonare a casa. “Come sta la rennona sulla panciona?”, le chiese col vocione scherzoso, facendo riferimento al maglione che sapeva stesse indossando. La risata di risposta fu così fragorosa, da fargli credere che anche la “bimba innominata” stesse ridendo di gusto all’unisono con la mamma. “Ero qui che guardavo la televisione: è appena cominciato un bel concerto di...sarebbe piaciuto anche a te. Tesoro? Pronto, mi senti?”. La telefonata venne interrotta bruscamente: con la coda dell’occhio aveva visto arrivare verso di lui i soccorritori e a malincuore aveva preferito riattaccare. “Emergenza in via dei Platani 15! – esclamò il collega entrando. Poi aggiunse scandendo. “Donna…Anziana… Sola…Probabilmente caduta in casa”. E infine urlò “Dai, metti in moto!”. Mentre imboccava la tangenziale, con lo sguardo fisso sulla strada, rispose idealmente a mezza bocca “Balla anche per me, tesoro”. La chiamata era giunta dalla vicina di casa che, insospettita dal fumo, si era messa prima a suonare il campanello e poi a bussare. Non ricevendo alcuna risposta, aveva subito telefonato prima ai pompieri e poi al Pronto Soccorso. “Al quinto piano presto! Guardate che fumo e poi la musica ad alto volume!”. La vicina, che li attendeva in strada, si sbracciava sgolandosi. All’ingresso vennero investiti dall’acre puzzo di fumo e dalle melodie, che potevano udirsi fin dal piano terra. “Gianni, vieni anche tu con noi” – gli disse perentorio il medico dal finestrino. Giunti in cima, trovarono i pompieri che avevano appena fatto saltare la serratura della porta d’ingresso. Dietro di loro entrò il medico, seguito dai soccorritori e da lui. Attraversarono di corsa il corridoio, giungendo velocemente in salone, al centro del quale campeggiava una tavola apparecchiata magnificamente per tre. “Ma non viveva da sola?”, pensò Gianni tra sé e sé. La trovarono con le gambe immobilizzate, distesa sul pavimento della cucina ormai invasa dal fumo. Cosciente e, incredibilmente, sorridente. “Auguri ragazzi, mi dispiace che la cena s’è bruciata, sennò vi sedevate e mangiavate qualcosa con noi”. Nello sbigottimento generale, nessuno osò contraddirla e quell’invito, così spontaneo e naturale, lì lasciò senza parole di fronte ad una donna che avrebbe potuto essere la mamma di quasi tutti. Poi aggiunse timidamente: “Scusate il frastuono, ma a noi la musica piace ad alto volume”. Rimessa in piedi e accertato che il capitombolo fosse stato causato da una “patologia agli arti inferiori, sollecitati da un brusco e innaturale movimento”, non rimaneva molto da fare, se non prenderle le generalità e condurla in ospedale per accertamenti. Prima di lasciare il salone, con la coda dell’occhio incrociò lo schermo della televisione che, nel trambusto generale, era rimasta accesa. Gianni guardò la cantante sul palco, che proprio in quel momento era stata raggiunta da una coppia di signori. Da come si tenevano per mano, intuì che potessero essere i genitori; di fronte alla tv, rivolse un pensiero veloce a sua moglie che immaginò ballare sola al ritmo delle sue canzoni, tenendosi il pancione. “Gianni, pensaci un attimo tu”, disse il medico mentre la caricavano in ambulanza. “Ma tu sei Davide? – le domandò sempre sorridente tentando di accarezzargli il viso. “No signora, sono solo l’autista – le rispose cercando involontariamente di emulare quel sorriso così contagioso - Gentilmente, mi può dire le sue generalità?”. Quando scrisse EBE al rigo “Nome” ebbe ancora una volta la conferma che amava il suo lavoro e che, anche se quella sera l’aveva allontanato da casa, la notte di Natale gli aveva fatto il regalo più bello: il futuro nome di sua figlia che, ne era certo, sarebbe piaciuto anche a sua moglie. Mentre compilava il resto del modulo, sperò che crescendo potesse avere il suo stesso sorriso. 

Di corsa, con la statua

Il tassista si avvicinò lentamente al pompiere, che si era posizionato momentaneamente in mezzo alla strada per dirigere il traffico. “Circolare per favore, qui non si può passare: la via in fondo è chiusa per un intervento” disse sporgendosi all’interno della vettura. “Un incendio?” – chiese da dietro il passeggero, vestito in giacca e cravatta. “Non esattamente. Una signora è caduta in casa. Siamo intervenuti insieme al 118 per liberarla dal fumo e…”. “In via dei Platani 15? – lo interruppe l’uomo con un tono decisamente più preoccupato. “Sì, al quinto piano, ma a Lei che gli interessa scusi?”, incalzò il pompiere risentito, mentre l’altro scendeva di scatto dal taxi. “Dov’è?” lo sollecitò tremante fissando negli occhi il pompiere sempre più sbigottito. “La stanno portando via con l’ambulanza, ma comunque… sta bene” – gli rispose impaurito, indicando il mezzo in fondo alla strada. “Ma Lei che c’entra?”. Si mise a correre all’impazzata, come mai aveva fatto prima. “Per una volta che mi viene in mente di fare una sorpresa, me la fa lei a me”, imprecò tra sé, mentre si faceva largo a spallate tra i soccorritori. Prima di affacciarsi verso l’interno dell’ambulanza, si accertò che nella corsa non gli fosse caduta la statuetta dalla tasca dell’impermeabile. Poi si risistemò il nodo alla cravatta, per presentarsi a Lei come sapeva che avrebbe voluto vederlo la notte di Natale. 

Post Scriptum. Solo…è meglio

Si ricordò che a pochi chilometri da lì c’era una comoda area di sosta nella quale tante volte aveva parcheggiato. L’ideale per trascorrere quella serata. Ormai era una prassi che si ripeteva anno dopo anno: arrivata una cert’ora, staccava tassametro e telefono e si preparava a quella che lui chiamava la “modalità festa”. Anche se non aveva famiglia, anche se non doveva consegnare o ricevere regali. Anche se, in definitiva, c’era ben poco da festeggiare. Si sistemò col muso del taxi di fronte ai distributori automatici di bevande, addobbati di rosso per l’occasione: quelli sarebbero state le sue luminarie. Dal cruscotto estrasse due mini panettoni - provvidenziale dimenticanza di un’antipatica cliente spendacciona - e una bottiglia di birra che aveva comprato al discount la mattina e che, col freddo, si era mantenuta bella fresca. Da sotto il sedile tirò fuori l’Arbre Magique di colore verde al profumo di pino, che sostituì il solito giallo alla vaniglia ormai sbiadito. Prima di scendere, accese la radio e cercò la stazione che ascoltava ormai da tre anni tutti i giorni: gliel’aveva consigliata un suo collega e, una volta scoperta, non l’aveva mollata più. Trasmetteva rock internazionale – la musica che lui adorava - e gli speaker, che col tempo erano diventati i suoi migliori compagni di viaggio, avevano tutti strani soprannomi. Scese dall’auto e, tenendo sempre il motore acceso, posizionò i due panettoncini sul cofano vicino al radiatore per farli scaldare. Nell’attesa si accese una sigaretta. C’erano le luminarie, c’era l’albero e la “cena” sarebbe stata pronta a breve. E quando dalle casse a tutto volume uscì la voce di Freddie Mercury, cominciò a ballare da solo imitandone goffamente i movimenti con le braccia e le gambe. Sollevò la bottiglia e, rivolgendosi al panorama di case illuminate davanti a sé, urlò: “Buon Natale a tutti!”.

VOGLIA DI NATALE