Storie di Rock'n'Roll - Dark Decadence Tour

Una nuova storia fatta di rock'n'roll, concerti e lacca dalla memoria e dal cuore della nostra TiTania

Una sera di aprile.

Non ricordo esattamente di quale anno, credo il 2011.

C’era un concerto al Rock Planet di Pinarella di Cervia, uno di quelli che piacciono a me, dove ci si veste poco ma si suda comunque tanto.

Uno di quelli che, quando entri all’interno del locale, ti ritrovi addosso, come fosse un uragano tossico, il profumo di lacca.

Era il Dark Decadence Tour, a calpestare il palco quel giorno c’erano i Crashdiet in apertura, seguiti poi dai 69Eyes e dagli Hardcore Superstar, che allora ancora non erano certo famosi come lo sono oggi.

Il biglietto costava intorno ai 20€, un prezzo popolare, tanto che ci trovammo tutti lì, non importava da dove venissimo.

Quel giorno i miei amici erano partiti da Vicenza, mi erano passati a prendere alla stazione di Bologna.

Li avevo sentiti arrivare ancor prima di vedere l’auto, o meglio, avevo sentito Kickstart my Heart dei Motley Crue sparata a cannone.

Il tempo di lanciare la mia roba all’interno dell’abitacolo ed eravamo già in autostrada, pronti per una serata che non avrei mai più dimenticato.

C’erano Pigo, Alvaro, Roberto e Riccardo con me quella sera.

Pigo indossava una bandana nera, in pendant con una classicissima t-shirt della Jack Daniel’s, Riccardo ne aveva una bianca che aveva abbinato ad un giacchino di pelle, la stessa pelle che vestiva sia me che Roberto dalla vita in giù, mentre una maglietta degli Slayer gli ricopriva la parte superiore.

Poi c’era Alvaro, a cui si intravedevano i capezzoli. La sua non si poteva certo definire una maglia, considerando che era più strappata che integra, l’unica cosa rimasta intatta era la copertina di Girls Girls Girls dei Motley Crue che vi era stampata sopra.

Io e Alvaro quella sera avevamo scelto due tipi differenti di zebrato: lui per i suoi jeans, io per il resto del mio outfit.

Le mie calze a rete erano volutamente strappate, ai tempi le compravo integre per poi distruggerle a pochi giorni di distanza.

Ogni tanto ancora le indosso, tanto ai concerti non durano più di cinque minuti solitamente.

Dopo un paio d’ore di viaggio arrivammo a destinazione, con largo anticipo.

Pensammo che andare a fare un giro in spiaggia non fosse una cattiva idea, alla fine non vedevamo il mare da chissà quanto tempo.

La spiaggia era deserta in quel tardo pomeriggio, così ci sedemmo sulla sabbia, vestiti di tutto punto, a fumarci una sigaretta e a bere un drink (prelevato rigorosamente dal baule) prima di tornare al locale.

Sul biglietto l’orario d’inizio era segnato per le ore 20.

Arrivammo circa venti minuti prima.

Una volta entrati l’amara scoperta: i Crashdiet avevano già suonato e, sul palco, si stavano già esibendo i 69Eyes.

Il locale era vuoto.

Quando mai capita che un concerto inizi un’ora prima rispetto all’orario di inizio riportato sul biglietto?!

Il locale cominciava a riempirsi e tutti si chiedevano come fosse possibile che i Crashdiet avessero già suonato.

Inutile dirlo, fu una stronzata.

Ci rimasi talmente male che mi lanciai subito al bancone del bar. “Un vodka redbull, grazie”.

I 69Eyes fecero la loro porca figura, nonostante ancora il locale non fosse pieno come tutti ci aspettavamo.

Arrivò però il momento degli Hardcore Superstar.

Si vedeva volare di tutto: bandane, cappelli, magliette sudate. Di tutto.

La gente impazziva e saltava e urlava e cantava e chiunque ti trovassi al tuo fianco era felice di essere lì, in quel momento carico di sola musica, mentre le note di We Don’t Celebrate Sunday riempivano l’aria.

Passare tra la gente era diventato impossibile, sinceramente non so come Riccardo fece ad ubriacarsi talmente tanto da non ricordare nemmeno l’inizio del concerto.

Certo è che quella sera fece conquiste, e anche questo non me lo spiego, considerando che faceva fatica a parlare. L’unica cosa che usciva da quella bocca a fine serata erano mugugni di ignota natura che però, evidentemente, su quella ragazza di Bologna fecero colpo.

Il dj set non fu da meno. Gli anni ’80 riecheggiavano su ogni parete del locale, ci trovammo a ballare assieme a sconosciuti e non, amici di vecchia data che non so nemmeno più che fine abbiano fatto, per poi ritrovarci a molestare (come ancora oggi succede) i Crashdiet per qualche autografo.

Era Simon Cruz il più ambito, colui che dopo la morte di Dave Lepard ne fu il degno sostituto.

Prima di lui, per un paio d’anni, aveva cantato Olliver Twisted, attualmente meglio conosciuto come Olli Herman dei Reckless Love, ma non aveva il tiro adatto per gestire una band come i Crashdiet.

Era troppo bello, troppo curato, troppo poco Sleaze.

Ma Simon…Simon era tutto ciò che quella band stava cercando. Aveva un pentacolo tatuato sulla rasatura che teneva sulla sinistra, mentre sulla destra gli cadeva una cascata di capelli cotonati e scompigliati. Il trucco pesante, un gigantesco piercing al labbro e quel fare da dannato che lo rendeva una perfetta icona dello street rock.

Quella sera rubammo fotografie, autografi e momenti sia a loro che agli Hardcore Superstar, con cui passammo una parte di serata.

Bastava poco per attrarli, una bottiglia di Jack Daniel’s tirata fuori dal baule della macchina ed era fatta.

Era gente di strada, gente come noi.

Uscimmo dal locale non prima delle quattro del mattino, ci dovettero quasi cacciare, tutti quanti.

Era stata una serata talmente riuscita che nessuno di noi voleva andarsene per tornare alla propria vita.

Ma per noi, cinque poveri disgraziati…non finì lì.

Eravamo talmente tanto vicini alla spiaggia che decidemmo di tornarci, per poi appisolarci lì.

Dormire in macchina a 300km da casa era una costante dopo serate del genere.

Io e Roberto eravamo ancora troppo carichi di adrenalina per pensare di metterci a dormire, così a piedi nudi ci avviammo ancora una volta verso la riva.

Al nostro ritorno, però, l’alcool aveva fatto il suo effetto.

I nostri amici dormivano tanto profondamente che non riuscimmo a svegliare nessuno di loro per farci aprire la macchina.

Erano i primi di aprile e nella notte più profonda il freddo pungeva la pelle.

Ci avvinghiammo su di una panchina, cercando di scaldarci l’un l’altra il più possibile, ma non bastava e ben presto ci stufammo.

Tornammo in spiaggia alla ricerca di qualcosa con cui poterci vendicare, come un secchiello e un paio di palette.

Il risultato fu un castello di sabbia costruito malamente sul cofano della macchina, a cui avevano posizionato al centro l’antenna radio.

Una volta aperti tutti i tergicristalli e chiuso gli specchietti siamo tornati ad accovacciarci sulla fredda panchina a fianco dell’auto, attendendo il momento in cui qualcuno si sarebbe svegliato.

Inutile dire che al primo movimento sospetto ci fiondammo a battere i pugni sui finestrini per farci finalmente aprire.

Volai nel baule cercando il cambio di vestiti che mi ero prudentemente portata appresso, tentando finalmente di cambiarmi per riscaldarmi dopo tutto il freddo patito.

Ma non fu facile. La macchina si mise in moto.

Alla guida c’era Alvaro che, ancora un po’ assonnato, aprendo gli occhi vide accostarsi a noi la macchina della polizia.

In realtà stavano semplicemente parcheggiando e noi non avevamo nulla da nascondere, ma chissà per quale motivo Alvaro pensò che fosse un’ottima idea mettere in moto e scappare.

Secondo voi cosa succede se una macchina parcheggiata si mette in moto non appena una volante le si parcheggia a fianco? Esatto. Hanno cominciato a seguirci con le sirene accese.

L’antenna radio andò persa, il castello di sabbia costruito sul cofano si sfaldò, i tergicristalli rimasero aperti.

Sulla volante finì qualche lattina di birra vuota rimasta in macchina dalla sera prima e lanciata fuori dai finestrini posteriori (si poteva evitare? Certo che sì. Ma per chi era seduto dietro non sarebbe stato altrettanto divertente, presumo), mentre io assistevo a tutta la scena dal lunotto posteriore, ancora mezza vestita.

Ad oggi devo ancora capire come sia possibile che ad un certo punto smisero di seguirci, ma soprattutto come possano non aver perlomeno preso il numero di targa.

Finì al bar, come ogni storia che si rispetti, con un doppio caffè per tutti, anche se ormai la dose di adrenalina era la stessa che venne iniettata nel cuore di Nikki Sixx, come racconta la canzone con cui quel nostro viaggio era partito: Kickstart my Heart. La prossima volta, però, anche meno.

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