The Soft Parade, l'album audace e controverso di Doors
Il 18 luglio del 1969 i Doors entravano in modalità orchestrale con The Soft Parade, un disco audace e dispersivo che servì alla band per ritrovarsi
Nel lontano 18 luglio 1969 usciva il quarto album dei Doors, The Soft Parade, un disco destinato a diventare una delle pietre angolari più controverse della loro discografia.
È una storia che merita attenzione: una band al culmine della fama, un frontman sempre più lontano dallo spirito collettivo, e un produttore (Paul A. Rothchild) deciso a spingere in territori mai esplorati.
Ne uscì un album ambizioso, pieno di fiati e archi, capace di polarizzare critica e pubblico.
All’alba del 1969 i Doors erano una forza inarrestabile. Il successo di Waiting for the Sun li aveva portati al numero uno negli Stati Uniti per la seconda (e ultima) volta e a conquiste importanti in Europa.
Ma dietro ai riflettori, Jim Morrison iniziava a perdere interesse verso la musica di gruppo, preferendo dedicarsi alla poesia e alla sperimentazione personale, immerso in un vortice di alcol, sostanze, tensioni legali e instabilità psicologica.
Mentre gli altri portavano avanti tournée estenuanti, le nuove canzoni latitavano, lasciando vacillare la coesione creativa del quartetto .

The Doors come un'orchestra
Quando finalmente i Doors entrarono in studio, già si era consumata una frattura: il produttore Rothchild, ossessionato dalla produzione perfetta, impose sessioni infinite tra Elektra Studios B e Sunset Sound a Los Angeles tra la fine del 1968 e la primavera del 1969.
Le registrazioni si dilatarono per quasi nove mesi, con costi mai visti fino a quel momento — circa 80 000 dollari, quasi otto volte quello del debutto della band.
Bruce Botnick, l’ingegnere del suono, ricordava come fosse necessario lavorare ogni singolo elemento fino allo sfinimento: Densmore “suonava le percussioni per un’ora intera”, mentre Morrison partecipava alle sessioni con crescente disinteresse.
Il motivo di questa trasformazione radicale stava in un progetto più grande: Rothchild voleva modellare il suono dei Doors su un’orchestra a tutto tondo, incorporare fiati, archi, influenze jazz, soul e addirittura bluegrass.
Il singolo “Touch Me”, scritto da Robby Krieger, divenne il simbolo di quell’operazione: un brano sofisticato, arricchito da un assolo di sax tenore, che raggiunse il numero 3 nella classifica Billboard Hot 100, diventando uno dei singoli di maggior successo della band.
Gli eccessi e la dispersione sonora di The Soft Parade
Un altro aspetto rivoluzionario fu la suddivisione dei crediti compositivi: per la prima volta ogni brano riportava il nome dell’autore, invece di attribuire genericamente tutte le canzoni a “The Doors”. Morrison era ormai distante: Krieger scrisse circa metà dei brani e cantò persino su “Runnin’ Blue”, dedicata a Otis Redding, scomparso di recente.
Il titolo dell’album e dell’ultimo brano, The Soft Parade, nacque da una poesia-montaggio di Morrison, dove l’artista raccontava in chiave simbolica la bizzarra umanità che affollava il Sunset Boulevard.
La traccia conclusiva, lunga oltre otto minuti, è una suite articolata in sezioni (Petition the Lord with Prayer, Sanctuary, Andante e Allegro) che alternano recitazione, clavicembalo, funk, jazz e un doppio tracking sulla voce, una vera e propria piccola odissea.
Una sorta di vera e propria 'dispersione sonora' che spingerà i Doors a tirare nuovamente le briglie e rimettere le cose in ordine l'anno seguente. Il 1970 segnò infatti il ritorno ad una forma più essenziale con Morrison Hotel e poi L.A. Woman, in reazione all’eccesso di The Soft Parade.
Anche i membri della band confessarono l’affaticamento: Morrison ammise che "le cose ci sfuggirono di mano, ci vollero troppi mesi" e che all’album mancava un filo conduttore coerente; Krieger osservò amaramente: "A noi piaceva, ma a quanto pare eravamo i soli".
Ray Manzarek, invece, difese l’esperimento, definendolo Doors “ri-dipinto con un po’ di panna montata sopra” .
Un album controverso ma audace
Alla sua uscita, l’album fu accolto da reazioni contrastanti. I fan più puristi e la scena underground lo ritennero un tradimento del sound trasgressivo e crudo che aveva definito le prime uscite.
Rolling Stone fu impietoso, definendo il disco “peggiore che infastidirebbe, è triste” per una band che aveva lasciato impronte indelebili nel rock psichedelico.
Molti recensori parlavano di “canzoni deboli” come “Do It” o “Runnin’ Blue”, giudicando l’album il più debole dell’era Morrison.
Eppure l’album fece numeri importanti: si posizionò al sesto posto nella Billboard 200, rimase in classifica per 28 settimane e conquistò il disco d’oro e successivamente il platino, spinto da quattro singoli pubblicati – una pratica inedita per i Doors.
“Touch Me” fu il più celebrato, ma anche “Wishful Sinful” e “Tell All the People” entrarono nella top 60, sebbene con meno impatto.
Oggi The Soft Parade non è più visto come un cedimento, ma come un momento di rottura e di rischio creativo radicale.
È l’opera in cui i Doors alzarono la posta, esplorarono i limiti della propria identità e misero in scena una parata sonora che, pur imperfetta, non si potè ignorare, segnando uno dei momenti più audaci della carriera della band.